La secessione catalana   non si è fermata

Il referendum per l’indipendenza della Scozia è stato perduto dagli indipendentisti. Ma l’altra regione che aspira alla secessione, la Catalogna, non si è affatto fermata. Il parlamento catalano, la Generalitat, ha votato il 19 settembre scorso (il giorno successivo al referendum scozzese) per l’indizione di un referendum sull’autodeterminazione, con una maggioranza schiacciante: 106 a favore e appena 28 contrari. Di fatto, l’unanimità dei rappresentanti politici catalani vuole almeno un voto per l’indipendenza. Il presidente catalano Artur Mas, dopo la decisione parlamentare, ha firmato il decreto, che conferma l’organizzazione del referendum popolare il prossimo 9 novembre.

Ma il governo Rajoy a Madrid, contrariamente al governo Cameron a Londra, non ha affatto accettato il voto per l’autodeterminazione. La Corte Costituzionale Spagnola si era già pronunciata in modo inequivocabile in merito all’incostituzionalità di un referendum per l’indipendenza. Dopo il decreto firmato da Mas, Rajoy ha presentato ricorso alla Consulta e ha ottenuto ragione una seconda volta: all’unanimità, infatti, i giudici supremi spagnoli hanno sospeso il decreto che istituisce il referendum il 29 settembre. Giusto per far capire che non scherza, il 30 settembre il premier Mariano Rajoy ha ordinato al servizio postale nazionale di non partecipare a eventuali operazioni di voto e spedizione di schede. Finora non si è parlato di mobilitare l’esercito. Ma il premier conservatore spagnolo usa comunque termini molto duri. Nei confronti dei catalani afferma di temere una loro “insubordinazione” il prossimo 9 novembre.

Il consenso popolare a un referendum catalano è difficilmente misurabile. Prima del divieto da Madrid, risultava che l’80% fosse favorevole al referendum. Dopo il divieto, secondo un sondaggio commissionato dal quotidiano (spagnolo) El Pais, solo il 25% sarebbe favorevole ad andare avanti, pur sfidando il governo centrale. Ma è un quotidiano spagnolo, appunto. A giudicare dalla massa raccolta durante la “Diada”, la festa nazionale per l’indipendenza, il consenso è molto ampio: quasi 2 milioni di cittadini in piazza, sotto le bandiere giallo-rosse della Catalogna. Se chi scende in piazza rappresenta l’élite più attivista, la punta dell’iceberg di un consenso più vasto … Il miglior sondaggio, in ogni caso, è sempre rappresentato dalle elezioni. E le elezioni degli ultimi sette anni hanno sempre dato la maggioranza schiacciante a partiti indipendentisti. Il voto di 106 a 28 a favore del referendum, lo scorso 19 settembre, ne è la dimostrazione più palese. Mariano Rajoy, insomma, ha a che fare con una regione, la più ricca, industrializzata e dinamica del suo Paese, che vuole secedere. La sua risposta è quella di trattare nuovamente le condizioni dell’associazione fra Barcellona e Madrid, nei limiti della Costituzione. Ed è, tutto sommato, ciò che Artur Mas chiede. Il presidente catalano, infatti, sapeva ben prima del 19 settembre che un referendum per l’indipendenza fosse incostituzionale. In teoria, però, un’eventuale vittoria del “Sì” darebbe una maggior forza contrattuale con Madrid, quando si riaprirà il negoziato per una maggiore autonomia politica, amministrativa e fiscale. E per questo motivo Artur Mas va avanti, nonostante il divieto del governo centrale. Subito dopo il pronunciamento della Consulta spagnola, il portavoce della Generalitat, Francesc Homs ha confermato che l’esecutivo procederà nell’organizzazione del referendum. Non è dato sapere fin dove si possa tirare la corda senza spezzarla. Una cosa sembra certa: la Catalogna continuerà a tirarla, sempre più forte, almeno fino al prossimo 9 novembre. Nonostante la bocciatura dell’indipendentismo, il referendum scozzese ha comunque dato una lezione importante: lo strumento plebiscitario paga, perché serve a fare pressione sul governo centrale, permette di ottenere una maggiore autonomia, sensibilizza l’opinione pubblica internazionale su un problema che altrimenti verrebbe ignorato. E soprattutto è uno strumento non-violento, che può essere adottato senza paura. Il terrore di veder ripetere lo scenario della Jugoslavia, infatti, aveva paralizzato le opinioni pubbliche europee. Ma oggi è un fatto del passato remoto ormai. Dopo vent’anni dalla fine dei conflitti balcanici, soprattutto dopo lo scoppio della più grave crisi economica dal 1929, sembra che questa tendenza centrifuga (che c’è sempre, anche se si vede poco) abbia trovato una nuova strada.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:52