Cosa rischiamo nella guerra all’Isis

Sviluppi veramente inquietanti nel nuovo conflitto in Iraq contro le milizie dell’Isis. L’impegno delle democrazie occidentali resta molto limitato, ma gli jihadisti annunciano rappresaglie contro le nostre popolazioni.

Finora si registrano solo 170 raid aerei sull’Iraq dall’8 agosto. Dunque, dal momento del discorso di Barack Obama alla nazione fino ad oggi, sono stati condotti appena 20 attacchi aerei selettivi. La novità di ieri è l’inizio dell’intervento armato francese: i suoi primi 4 raid aerei sono stati lanciati ieri, contro postazioni degli jihadisti nei pressi di Mosul e della sua importante diga, che rifornisce tutta la regione di Ninive. La Francia è il primo alleato degli Stati Uniti che partecipa anche militarmente alle operazioni. Il presidente socialista François Hollande, ieri, ha specificato che il raggio d’azione dei suoi bombardamenti si limiterà al solo Iraq. La Siria è ancora off limits, così come lo è per gli stessi americani. Sui suoi cieli si stanno già effettuando voli di ricognizione, ma nessuna arma è stata impiegata. Il governo britannico ha annunciato la possibilità di unirsi alle operazioni, nel prossimo futuro. Finora, Londra ha autorizzato solo voli di ricognizione e prosegue con la fornitura di aiuti umanitari ai profughi in fuga dal Califfato.

Stando agli impegni presi dalle nazioni della Nato al vertice del Galles e dai Paesi della coalizione anti-Isis nel vertice di Parigi, si può già tracciare un primo quadro del piano di intervento. Gli Usa si accollano il grosso dello sforzo impiegando la loro forza aerea (F-18 basati sulle portaerei nel Golfo Persico, droni ed elicotteri d’attacco), mandando un migliaio di consiglieri militari e fornendo armi e supporto logistico ai resistenti siriani anti-Assad nemici dell’Isis. Non è chiaro se, nell’immediato futuro, manderanno anche truppe di terra, come ha dichiarato il generale Dempsey, comandante in capo delle forze armate. La Francia partecipa all’operazione solo con raid aerei selettivi e inviando armi ai curdi. Il Regno Unito partecipa (per ora) solo con una missione di sorveglianza aerea e inviando armi ai curdi. La Germania invia 40 consiglieri militari e le armi ai curdi. L’Australia promette un intervento più consistente nell’immediato futuro, con l’invio di 600 consiglieri militari, armi ed equipaggiamento per i curdi e una decina di F-18. L’Italia partecipa solo mandando armi al Kurdistan. Quelli che avrebbero dovuto costituire l’ossatura dell’alleanza, i Paesi arabi confinanti con l’Iraq, si sono invece ritagliati un ruolo solo logistico: l’Arabia Saudita e gli emirati del Golfo si limitano ad aprire il loro spazio aereo per le operazioni alleate e, nel caso della monarchia saudita, forniranno basi per l’addestramento dei guerriglieri irregolari siriani. Anche la Turchia si ritaglia solo un ruolo di supporto logistico e niente di più. Ieri Ankara ha autorizzato ai curdi siriani di poter entrare nel proprio territorio.

Da quel che si può constatare finora, dunque, l’intervento è di natura molto limitata: raid aerei e sostegno alle forze locali. Se l’obiettivo di Obama era quello di costituire una grande coalizione araba/musulmana anti-Isis e guidare il conflitto dalle retrovie, per ora non si vede nulla di simile. Si avrà un piccolo attacco occidentale, con gli arabi e i turchi nel ruolo di spettatori attivi. Il conflitto riguarda soprattutto loro: Arabia Saudita ed emirati del Golfo sono infatti i primi obiettivi del nuovo Stato Islamico. Ma proprio per la loro vicinanza, per il timore di una rivoluzione di simpatizzanti del nuovo Califfato (molto più numerosi di quanto non si possa credere) e per la paura di rappresaglie dirette, le monarchie arabe sunnite preferiscono restare in disparte. Così anche la Turchia, che è il Paese con il più alto numero di ostaggi nelle mani dell’Isis. La Siria, direttamente interessata al conflitto (il Nordest siriano è già parte del Califfato, con Raqqa capitale provvisoria del califfo Al Baghdadi), combatte già contro le milizie jihadiste, ma non può intervenire nella coalizione perché il regime di Bashar al Assad è nella “lista nera” degli Usa, della Turchia e di tutte le monarchie arabe sunnite. Il piano statunitense prevede, dunque, la formazione di un esercito irregolare siriano, che combatta sia contro l’Isis che contro Assad. Estendere i raid aerei anche al territorio siriano sarebbe inteso dal dittatore di Damasco come un attacco al suo territorio. La Russia, sua grande protettrice, ha già lanciato la sua diffida. Un mancato intervento in Siria, tuttavia, permetterebbe all’Isis di rafforzare le sue postazioni attorno a Raqqa e Deir Ezzor, al di qua del confine siro-iracheno. E, ancora peggio, costringerebbe i curdi in Siria a combattere da soli contro un nemico superiore e meglio armato. Il dilemma resta e sarà di difficile soluzione.

Di fronte all’intervento occidentale, l’Isis lancia minacce apocalittiche, che tuttavia denotano la sua carenza di mezzi. Non risultano esserci piani in stile 11 settembre, sarebbero al di là delle sue capacità logistiche. Ci sono, piuttosto, piani per attentati rudimentali, ma estremamente crudeli. In Australia, per esempio, 25 simpatizzanti dell’Isis avrebbero voluto rapire civili a caso e decapitarli di fronte alle telecamere. Sarebbe stato un attentato facile da preparare (nessun bersaglio “duro”), ma di fortissimo impatto emotivo. Il piano è stato sventato dalle autorità australiane e 15 persone sono state arrestate. Una decina, però, sono a piede libero e fanno ancora temere il peggio. Il monitoraggio dei messaggi fra jihadisti rivelerebbe anche l’ipotesi di attaccare le popolazioni americana ed europea con un’epidemia di ebola. Non si sa ancora se questa sia solo una sparata o un rischio concreto. Sembra comunque difficile l’uso sistematico di armi batteriologiche, che richiederebbero laboratori altamente specializzati e vettori ad alta tecnologia, tutte cose di cui l’Isis non dispone. Portare malati di ebola in Europa o negli Usa, d’altro canto, provocherebbe un danno relativamente limitato, considerando che la struttura sanitaria dei Paesi europei non è quella dei Paesi africani in cui l’epidemia si sta diffondendo. È anche questa da intendersi più come arma psicologica che come un’arma di distruzione di massa. L’Isis punta a scavare nelle nostre paure peggiori (civili decapitati nelle nostre città ed ebola, la malattia che fa più paura in assoluto in questi mesi) per terrorizzarci.

Ben più concreta è la minaccia di decapitare altri ostaggi già nelle mani dell’Isis. Il britannico John Cantlie, che risultava libero già dal 2012, è invece apparso ieri in un video degli jihadisti. Lo stanno usando come arma di propaganda: quello di ieri dovrebbe essere solo il primo di una serie di filmati in cui il prigioniero spiega le “ragioni” dell’Isis e predica contro l’intervento occidentale.

Finora, comunque, in base a tutto quel che si sa sull’Isis e sulla sua capacità militare, non rischiamo la distruzione di massa. La rischieremmo se lasciassimo diventare il Califfato molto più potente di quel che è ora.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:46