Finalmente anche   il Golfo contro l’Isil

La minaccia jihadista dello Stato Islamico del Levante sta spaventando anche le monarchie sunnite del Golfo. L’avanzata degli islamisti in Siria e in Iraq, il loro uso efferato dei media per pubblicizzare le barbariche uccisioni di ostaggi occidentali o di soldati inermi dell’esercito siriano, preoccupa i leader arabi, soprattutto in Arabia Saudita, che temono un effetto contagio anche nei loro territori, dove fasce consistenti dell'opinione pubblica, specie tra i più giovani, sono permeabili all’ideologia radicale reclamizzata da Al Baghdadi e dai suoi sempre più numerosi seguaci.

I paesi del Golfo hanno perciò messo da parte gli antichi rancori e le vecchie gelosie e hanno delineato una strategia di intervento comune, al fianco degli Stati uniti e delle forze che combattono i jihadisti sunniti in Siria ed Iraq. Solo pochi mesi fa, il 5 marzo scorso, l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein avevano annunciato il richiamo dei loro ambasciatori da Doha e l’espulsione dei rappresentanti qatarini dalle loro capitali - un passo senza precedenti nella storia del Consiglio di Cooperazione del Golfo - accusando il Qatar di interferire nei loro affari interni e destabilizzare la regione medio-orientale, sostenendo e finanziando le organizzazioni legate al movimento dei Fratelli Musulmani, dalla Siria all’Egitto, financo in Arabia Saudita. Il governo saudita aveva bandito dal Regno i Fratelli Musulmani definendoli gruppo terrorista e grave pericolo per la sicurezza del paese. Con l’insorgere dell’Isil, il dossier dei fratelli musulmani è stato per il momento archiviato e i Paesi del GCC hanno ritrovato lo spirito comune.

I ministri degli esteri del Consiglio di cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar) si sono incontrati nei giorni scorsi a Gedda e hanno raggiunto, a porte chiuse, un accordo per superare il contenzioso con il Qatar e per definire una strategia comune contro il pericolo Isil. Pochi giorni prima a Riad, il Monarca saudita Abdullah, intervenendo alla cerimonia di presentazione delle credenziali di alcuni nuovi ambasciatori, tra i quali lo statunitense Joseph Westphal, aveva lanciato un severo monito di allarme sul grave rischio che l'Occidente, il suo regno e gli altri paesi arabi avrebbero corso se non fosse stata condotta un'azione "rapida" contro le milizie terroriste dell’Isil. "Se li ignoriamo, sono sicuro che raggiungeranno l'Europa in un mese e l’America in un altro mese", aveva detto re Abdullah, esprimendo anche dure parole di condanna per le decapitazioni e per le altre gesta raccapriccianti pubblicizzate sui media dai guerriglieri jihadisti. Il governo saudita aveva, nelle settimane precedenti, rafforzato le difese lungo la frontiera con l’Iraq, ormai non più controllata dall’esercito regolare di Baghdad. Trenta mila soldati sauditi, in assetto di guerra e armamento pesante, sorvegliano il confine per dissuadere gli elementi dell’Isil da ogni azione ostile. E sono state rafforzate le misure di protezione intorno ai pozzi petroliferi e alle stazioni di pompaggio sparse nel regno.

Secondo gli analisti internazionali, i Sauditi e gli altri arabi del Golfo avranno un ruolo cruciale nella guerra contro l’Isil. Nessuno meglio dei servizi di sicurezza e dell’intelligence saudita conosce i punti di forza e di debolezza delle milizie dell’Isil. Molti critici del regno sostengono però che l'Arabia Saudita stessa ha contribuito a diffondere il virus tossico del jihadismo finanziando i ribelli islamici e la loro ideologia estremista islamico salafita. In risposta alle accuse, il regno ha donato a metà agosto 100 milioni di dollari per il nuovo centro antiterrorismo delle Nazioni Unite (United Nations Counter-Terrorism Centre -UNCTC), e il Gran Muftì dell’Arabia saudita, Abdul-Aziz ibn Abdullah Al Shaykh, massima carica religiosa del regno, ha dichiarato in un sermone la settimana scorsa che l’ISIL e il suo antenato Al Qaeda sono il nemico numero uno dell’Islam."

L'Arabia Saudita sconta però, al proprio interno, uno strisciante conflitto tra pretendenti al trono di Saud e tra generazioni di principi, che spesso si sono serviti di elementi estremisti, finanziando gruppi islamisti, per condizionare alcune scelte strategiche e nomine importanti. Re Abdullah, assai popolare e rispettato dai propri sudditi, rimane per il momento sul trono, al quale arrivò nell’agosto del 2005. Ma a 90 anni, compiuti lo scorso 1 agosto, la sua energia e la capacità di attenzione sono limitati. Le tensioni sono emerse in diversi ministeri sauditi nel corso dell'ultimo anno, suggerendo manovre di palazzo per il potere. Nel 2012 e nel 2013 vennero diffuse da organi di stampa internazionali voci circa stati di coma del sovrano, sempre poi smentite. Certo è che la salute di re Abdullah pone serie preoccupazioni, in patria e all’estero, specie negli Stati Uniti, il grande alleato, che guarda con timore i giochi della successione.

Il funzionamento interno della famiglia reale rimane ancora impenetrabile agli estranei. Ma qualunque sia il disaccordo tra i principi e i pretendenti al trono, i figli e nipoti di re Abdul Aziz, il moderno fondatore del regno, sono stati in grado di mantenere la famiglia unita verso l’esterno e preservare il loro dominio. Il regno però sembra ora preoccupato da tre incognite: l'ascesa dell'Iran e dei suoi alleati sciiti musulmani; la recrudescenza dell'estremismo sunnita incarnata dall’ISIL; e l'affidabilità degli Stati Uniti, protettore del regno, che è visto da molti sauditi come una superpotenza in ritirata.

Non aiuta a capire del tutto la strategia saudita anche il carattere particolare di alcuni dei suoi leader di maggior spicco. Il capriccioso principe Bandar bin Sultan, sessantacinquenne, ex ambasciatore a Washington dal 1983 al 2005, capo dell'intelligence saudita dal 2012 al 2014. Di lui si è detto che avrebbe finanziato i movimenti anti Assad in Siria e anti-Iran in Iraq, aiutando, forse involontariamente, anche i terroristi di Al-Qaeda e i loro eredi, i jihadisti dell’isil. Quando è stato estromesso come capo dei servizi segreti nello scorso aprile, i funzionari della Cia hanno tirato un sospiro di sollievo. All’inizio dell’estate il Re ha voluto riabilitarlo con il titolo onorifico di presidente del consiglio di sicurezza nazionale. La mossa reale ha probabilmente rafforzato la stabilità saudita. Khaled bin Bandar bin Abdul Aziz, nuovo capo del servizio di spionaggio dal luglio scorso, ex vice ministro della difesa, è considerato più moderato e attento del suo predecessore; il principe Mohammad bin Nayef, ministro degli Interni, molto apprezzato dagli Stati Uniti per le sue capacità nella lotta al terrorismo islamico. Il nuovo capo dei servizi segreti, il ministro degli Interni, il principe Bandar e il ministro degli esteri Saud al-Faisal, hanno lavorato per ricucire lo strappo tra i paesi del GCC e il Qatar e hanno disegnato la strategia anti-isil approvata dai ministri degli esteri del Consiglio a Gedda.

Vi è ora da augurarsi che i Sauditi e gli altri paesi arabi del Golfo passino velocemente all’azione; la loro conoscenza ravvicinata del nemico, per averne in passato favorito la costituzione e l’addestramento, potrà contribuire a meglio impostare la tattica di contenimento e repressione dei jihaidisti dell’isil; fino ad ora, infatti, né gli Stati Uniti, né i paesi europei, né tanto meno i fragili governi iracheno e siriano hanno saputo contrastare con efficacia l’avanzata degli islamisti.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:44