Gli accordi sulla pelle degli ucraini

In Ucraina una tregua potrebbe iniziare anche venerdì prossimo. Lo ha dichiarato sul suo sito Web ufficiale il presidente ucraino Petro Poroshenko.

Inizialmente aveva fatto scrivere dai suoi portavoce che la sua conversazione telefonica con il presidente russo Vladimir Putin fosse risultata in un “cessate il fuoco permanente” nelle regioni dell’Ucraina dell’Est. L’equivoco è stato corretto subito dopo, quando sul sito Web del presidente è comparsa la dichiarazione definitiva: i due presidenti hanno raggiunto un “reciproco accordo sui passi da intraprendere per arrivare a un cessate-il-fuoco nella regione del Donbass”. Se le parole sono importanti (e lo sono), la prima versione lasciava ad intendere che il conflitto in corso non sia una guerra civile, fra “separatisti” locali ed esercito regolare ucraino, ma di un conflitto non dichiarato fra Russia e Ucraina. In quest’ultimo caso, Vladimir Putin è titolato a negoziare direttamente una tregua, considerando che le truppe sono le sue. Nella versione edulcorata e ufficiale, invece, Putin appare come mediatore in una guerra civile, che “intraprende passi” per convincere i separatisti ad accettare un cessate-il-fuoco. Era buona la prima, come si dice in un set cinematografico. Gli eventi di queste ultime due settimane dimostrano, infatti, che nella regione del Donbass non si muove foglia che Putin non voglia. Dunque è il presidente russo che può decidere direttamente se accettare una tregua o no. I separatisti dipendono dall’esercito russo. Se i russi intervengono, possono continuare a combattere e vincere. Altrimenti, sono costretti sulla difensiva.

Di fatto, sul terreno, cosa è successo? Fino alla settimana scorsa, l’esercito ucraino era all’offensiva e i pro-russi locali erano arroccati nelle due sacche urbane di Donetsk e Luhansk. Nella seconda metà di agosto, però, hanno iniziato a ricevere massicci rinforzi dalla Russia: la Nato stima più di 1000 uomini, i separatisti stessi affermano che siano circa 4000 uomini, dotati di armamento pesante. La Russia nega tutto. È però un grosso apporto esterno che ha ribaltato la situazione. Dopo il primo incontro fra Poroshenko e Putin, “qualcuno” ha deciso di premere di nuovo, per ottenere condizioni più vantaggiose. E ha fatto tornare i pro-russi all’offensiva, lungo la costa, prendendo Novoazovsk e stringendo da vicino Mariupol. L’esercito ucraino, mal armato, mal pagato, formato da ragazzi di leva, ha ricominciato a sbandarsi, come nei primi giorni di guerra. Un primo negoziato ha portato alla restituzione dei paracadutisti russi catturati dagli ucraini (paracadutisti regolarmente inquadrati nell’esercito di Mosca, non certo cittadini russi volontari) in cambio della liberazione dei soldati della Guardia Nazionale ucraina detenuti in Russia. Questo secondo accordo dovrebbe invece portare ad un cessate-il-fuoco alle condizioni dettate da Mosca. I pro-russi cesseranno le ostilità e fermeranno la loro offensiva, in cambio gli ucraini dovranno ritirarsi da una fascia di 10 km che li separi dalle città del Donbass e cessare tutte le operazioni aeree “contro i civili” (cioè tutte le operazioni aeree in senso lato, non essendoci “militari” regolari nel Donbass). È prevista anche l’apertura di corridoi umanitari per permettere l’evacuazione dei feriti e dei civili. Per Petro Poroshenko un accordo simile è un conveniente capestro. L’alternativa è la sua sconfitta militare. Per Vladimir Putin è una vittoria sul terreno, perché in questo modo, grazie a fascia di sicurezza e no-fly zone, costituisce di fatto uno Stato filo-russo separato dal resto dell’Ucraina. Una zona franca, non ufficialmente russa, ma di fatto parte della Federazione, analoga alla Crimea, alle regioni separatiste della Transistria (ricavata dalla Moldavia orientale), dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sus (ricavate dalla Georgia settentrionale).

Parallelamente a questo conflitto reale, si è svolto un altro conflitto virtuale fra Federazione Russa e Nato. Una guerra fatta di parole bellicose e promesse di nuove sanzioni. Putin ha alzato i toni e ha ventilato varie minacce, subito seguite da smentite. Ha fatto dire (attraverso l’estremista Vladimir Zhirinovskij, vicepresidente della Duma) che i membri orientali della Nato potrebbero beccarsi un attacco atomico: Tallin, Riga, Vilnius e Varsavia rientrano tutte fra i potenziali bersagli. Poi ha detto e smentito che intende riconoscere un nuovo Stato indipendente, la Novorossija, costituito dalle regioni separatiste dell’Ucraina. Infine ha gettato sul piatto il suo consueto: “Posso prendere Kiev quando voglio”, giusto per far capire chi ha l’esercito più forte. Da parte della Nato, invece, si è risposto con toni molto più edulcorati, imposti dal linguaggio politically correct della diplomazia occidentale. Ma altrettanto determinati: la Nato ha anticipato la costituzione di una nuova task-force (la Jef) di 10mila uomini, pronta a intervenire nel Baltico in caso di aggressione russa. La Svezia ha posto in stato di pre-allerta, le sue basi nel Baltico e ha lasciato intendere che potrebbe aderire all’Alleanza (una proposta analoga era stata fatta dalla Finlandia, mesi fa). Un corpo di spedizione a guida britannica potrebbe anche rafforzare la sicurezza di Moldavia e Georgia, in caso di pericolo. Sono tutte ipotesi di lavoro che verranno discusse, nei prossimi giorni, al vertice della Nato nel Galles. Intanto, truppe Nato (fra cui un piccolo contingente di parà italiani della Folgore) hanno avviato manovre in Polonia. E a Tallin, capitale dell’Estonia, il presidente Usa Barack Obama promette solennemente la protezione dell’indipendenza dei Baltici. L’Unione Europea, nel suo piccolo, ha posto un ultimatum alla Russia: se entro venerdì le acque non si saranno calmate, imporrà nuove sanzioni economiche, che tuttavia non sono mirate alla popolazione russa.

Nel caso le ostilità cessino venerdì, chi avrà vinto? La prima sconfitta sarà certamente l’Ucraina. La Nato e l’Ue, nonostante le pressioni su Mosca e le promesse di sostegno a Kiev, non sono riuscite a salvaguardarne l’integrità territoriale. La Crimea e (probabilmente, da venerdì) anche il Donbass sono persi. La Russia rischia, ancor di più, di perdere la sua battaglia nel lungo periodo. Attorno a sé ha fatto il vuoto di consensi delle repubbliche ex sovietiche, che ora temono di subire la stessa sorte dell’Ucraina: sono ostili o terrorizzati, non più amici. Di fronte a sé ha una Nato finalmente risvegliata da un lungo torpore e pronta a difendere i suoi membri orientali, una Ue pronta ad allargarsi a Moldavia, Georgia e quella parte (maggioritaria) di Ucraina ancora libera dall’influenza russa. La percezione della politica di Mosca è nettamente peggiorata. Persino una partner storica quale Angel Merkel, considera ora Putin come un “attore irrazionale”, un passo prima del “regime canaglia”. Se lo scopo di Putin era solo quello di far tornare la guerra fredda, ci è riuscito. Se invece l’obiettivo era quello di entrare nell’arena mondiale come potenza economica emergente, dopo l’espulsione dal G8 e la fuga dei partner occidentali e post-sovietici, è clamorosamente mancato.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:43