Le armi ai curdi:   l’ultimo “pacco”

Nelle ore drammatiche dell’acuirsi della crisi irachena, non è mancata la spacconata italiana che ci procurerà pernacchie dal mondo per un bel pezzo. Con grande enfasi il Governo di Roma ha annunciato che l’Italia avrebbe fatto la sua parte per fermare la minaccia dell’Isis, fornendo armi ai combattenti della regione del Kurdistan iracheno che, in questo momento, costituiscono la prima linea di fuoco contro l’avanzata dei jihadisti di Al Baghdadi.

Un lodevole proponimento che, inizialmente, aveva preoccupato non poco i governi di Baghdad, Damasco, Teheran e Ankara, non proprio entusiasti di vedere rafforzata, mediante l’aiuto italiano, la capacità bellica dei curdi. Poi, quando i particolari dell’operazione di soccorso sono stati resi noti, le cancellerie delle capitali mediorientali hanno tirato un sospiro di sollievo.

Roberta Pinotti, ministro della Difesa, ha spiegato che avrebbe inviato ai combattenti curdi armi leggere e munizionamenti presi da una partita sequestrata dalle nostre forze di polizia venti anni fa, ai tempi del conflitto bosniaco. Nel 1994, le armi vennero trasportate illegalmente lungo la rotta adriatica dalla nave Jadran Express. Intercettato nel canale d’Otranto, il carico fu sequestrato e stoccato in un’area del porto di Taranto, dove rimase, esposto agli effetti dell’umidità e della salsedine, fino al 1999.

Prima che si aprisse il processo contro i presunti responsabili del traffico illegale, le armi furono trasferite all’isola arsenale di Santo Stefano. Nel maggio del 2011, le cinque tonnellate di materiale bellico, stivate in quattro containers lasciarono l’isola per fare ritorno sulla terraferma. Il viaggio in mare avvenne attraverso normali traghetti di linea adibiti al trasporto passeggeri. Gli uffici delle Capitanerie di porto della Marina militare, che avevano fornito supporto logistico all’operazione organizzata da un reparto del Genio, assicurarono che non vi era stato alcun rischio per l’incolumità pubblica, visto che il carico era stato dichiarato compatibile con la presenza a bordo di passeggeri. In effetti, gli uomini della Marina militare erano in possesso di certificati ufficiali i quali attestavano che le armi trasportate erano state preventivamente disattivate, cioè rese inerti in modo permanente e, come prescrive la legge italiana in materia, “portate allo stato di mero simulacro anche nelle parti essenziali”.

Una volta sbarcato a Civitavecchia del carico si persero le tracce, salvo a ricomparire, in queste ore, nelle carte del ministro Pinotti. Eppure su quelle armi confiscate pendeva un ordine di distruzione emesso dalla magistratura competente nel procedimento penale avviato contro il trafficante internazionale d’armi e magnate russo Alexander Zukhov, nipote di quel Georgij Zukhov soprannominato “l’invincibile”, comandante dell’Armata Rossa ai tempi della Seconda guerra mondiale. Ordine mai eseguito. Anzi, il Governo dell’epoca aveva pensato di sottrarre le armi destinate alla distruzione, disposta dall’autorità giudiziaria, avocando a sé la potestà della decisione sul destino dei beni confiscati. Allo scopo fu emanato un decreto “ad hoc”. Peccato che non venne mai trasformato in legge. Di queste armi, e del loro utilizzo top secret, si vociferò ai tempi della guerra civile in Libia, nell’estate del 2011. Secondo i documenti dell’epoca si trattava di uno stock di 3mila casse contenenti ciascuna dieci fucili mitragliatori kalashnikov, corredati di baionetta. C’erano poi 400 missili filoguidati At-4/Spigot, oltre diecimila razzi anticarro Pg 7-9, razzi per Bm21 oltre che un quantitativo di proiettili di differente calibro.

Ora, a meno che nel corso degli anni, e all’insaputa delle autorità inquirenti, non siano state rigenerate, quelle armi sono obsolete e, stando alle dichiarazioni della Marina militare, inerti. Non serviranno granché. O meglio, serviranno alla propaganda renziana da spendere sul capitolo “Il prestigio internazionale di cui gode il nostro amato leader”. Beato chi ci crede. Se, invece, il Governo italiano avesse voluto fare sul serio, piuttosto che mandare un cumulo di vecchi arnesi e polvere neppure buona per farne mortaretti per i giorni di festa, avrebbe potuto pensare di impiegare uno stormo di cacciabombardieri nei raid aerei contro le forze dell’Isis, a fianco dell’aviazione statunitense, già impegnata da giorni nelle operazioni sul campo. Magari, il ministro Pinotti avrebbe potuto disporre il trasferimento alla base aerea di Al Bateen, ad Abu Dhabi, dei Tornado del sesto stormo, di stanza a Ghedi. Lo stesso gruppo a cui appartenevano i piloti scomparsi nell’incidente occorso a due aerei da caccia in volo sui cieli ascolani lo scorso 19 agosto.

C’è da presumere che il morale dei colleghi dei ragazzi morti sia a pezzi, per cui una missione importante li avrebbe certamente rimotivati, aiutandoli a superare un così brutto momento. Ma, come sappiamo, l’intento di questo Governo d’avanspettacolo non è quello di fare, ma quello di far finta di fare, nella speranza che gli italiani se la bevano.

Ai combattenti curdi che avevano chiesto “armamenti moderni” un sentito consiglio. Quando riceveranno il “pacco” delle armi italiane, facciano come si fa con i doni nuziali inutili e ingombranti: li si prende, si ringrazia e li si mette via. Che non venga loro in mente di usarli. Potrebbero farsi del male a maneggiare quei pezzi d’antiquariato. Ma ci tranquillizza sapere che i curdi, a differenza di noi, non sono malati di “tafazzismo”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:45