I cannoni di agosto,  tutte le guerre in corso

Peggio di così, il centenario della Prima Guerra Mondiale non poteva andare. Il mondo è pieno di conflitti, nessuno dei quali risolto. Anzi, se ne aggiungono continuamente altri. E anche dove non si combatte, si creano nuove “polveriere”. Approfittando di questa pausa estiva, è bene fare un punto della situazione sui conflitti le cui notizie ci tormenteranno in agosto.

Israele. È il conflitto di cui si parla di più, anche se è uno dei meno sanguinosi in corso. Dopo i tre giorni di tregua proclamati da Israele, da Gaza, ieri mattina, Hamas ha ricominciato a lanciare razzi. E l’aviazione con la stella di David ha prontamente risposto con nuovi raid. Le trattative per un cessate il fuoco prolungato (di pace non se ne parla) sono tuttora in corso al Cairo, ma pare sia un dialogo fra sordi. I movimenti terroristi palestinesi Hamas e Jihad Islamica, sostenuti anche dall’Autorità Palestinese, chiedono che lo Stato ebraico ammetta formalmente la sua sconfitta, prima di iniziare qualunque discorso. Israele, ovviamente, rifiuta, avendo conseguito il suo obiettivo militare primario (distruggere parte dell’arsenale di Hamas e i tunnel incuneati in territorio israeliano). Ma, soprattutto, la parte palestinese chiede che finisca il blocco di Gaza e un aeroporto ad uso e consumo di Hamas, teoricamente per rivitalizzare l’economia locale, ridotta al lumicino dall’embargo imposto da Israele ed Egitto. Considerando che Hamas, anche clandestinamente, importa armi dall’Iran e dalla Siria, Israele non ci pensa nemmeno a fornirgli un canale logistico aperto.

Siria. Della guerra civile più sanguinosa degli ultimi due decenni si parla sempre meno. Solo il rapimento di due volontarie italiane, nei pressi di Aleppo, ha contribuito a riaccendere l’attenzione dei media su un conflitto che ha già causato un numero di vittime stimato fra le 110mila e le 170mila negli ultimi tre anni. Anche in questo caso è difficile pensare ad una rapida soluzione del conflitto, poiché il dittatore Bashar al Assad non ha forze sufficienti per riconquistare tutto il territorio nazionale, mentre la variegata galassia delle milizie ribelli è troppo disorganizzata, frammentata e sparsa per poter rovesciare il suo regime. Dopo tre anni di duri combattimenti, i governativi hanno riconquistato il controllo delle province occidentali, a ridosso del confine con il Libano e consolidato le posizioni a Damasco, la capitale. Ma Aleppo e la regione di Idlib (dove sono state rapite le due cooperanti italiane) sono ancora zone contese. Mentre l’Est è saldamente nelle mani dei ribelli. E Deir Ezzor è l’epicentro dell’Isis, il movimento che ha fondato il Califfato nelle regioni sunnite di Siria e Iraq.

Iraq. Dopo un lungo torpore, a fronte del grido di dolore di Papa Francesco e del patriarca Raphael Sako, del rischio di un genocidio di cristiani, yazidi e sciiti, Barack Obama ha iniziato a bombardare ieri le posizioni dell’Isis. Per due mesi, impunemente, queste milizie jihadiste, emanazione di Al Qaeda (ma ormai indipendenti dalla vecchia rete terrorista) hanno creato il loro Califfato su un terzo dell’Iraq. Dopo aver espugnato Mosul, sono avanzati verso Nord, prendendo anche la città di Qaraqosh e provocando un esodo di 100mila civili, soprattutto cristiani. È stata la caduta di Qaraqosh e l’offensiva dell’Isis nel Kurdistan (ormai di fatto indipendente) che hanno determinato l’intervento militare americano. Obama, nella sua conferenza stampa, in cui annunciava l’inizio delle operazioni militari, ha subito voluto precisare che non intende rimettere piede in Iraq. Si tratterà solo di un’azione aerea e umanitaria: bombe sulle milizie dell’Isis e pacchi di aiuti umanitari sui profughi. Sul ritiro dal Paese che fu di Saddam, Obama si era giocato tutte le carte (vincenti) della campagna elettorale del 2008, almeno per quanto riguardava la politica estera. Dunque, difficilmente tornerà sui suoi passi. È però impossibile fare a meno di notare che l’ordine iracheno è durato ben poco, senza truppe americane a vegliare sulla sua integrità. Dopo nemmeno tre anni dal ritiro degli ultimi soldati statunitensi, è arrivata l’apocalittica offensiva dell’Isis. E quindi non era meglio lasciare qualcosa, invece di doverci tornare, dopo tanta sofferenza?

Ucraina. Paradossalmente, i media hanno smesso di parlarne quando il sangue ha iniziato a scorrere più copiosamente. Una volta eletto un presidente ucraino legittimo, Petro Poroshenko, riconosciuto (a denti stretti) anche da Mosca, la guerra è scoppiata nell’Oriente del Paese, fra l’esercito regolare e milizie irregolari che vorrebbero l’annessione delle regioni di Donetsk e Luhansk alla Federazione Russa. Non c’è più il rischio concreto di un conflitto fra Russia e Ucraina, come si temeva fino a maggio, prima dell’elezione di Petro Poroshenko, quando il Cremlino non riconosceva la legittimità del governo di Kiev. Tuttavia, l’Ucraina è ancora una polveriera internazionale notevole. L’abbattimento del volo MH17 della Malaysian Airlines è la dimostrazione che il conflitto ormai considerato “locale” può tornare ad interessare tutto il mondo. Le sanzioni imposte alla Russia, proprio in seguito all’abbattimento (imputato alle milizie pro-russe dell’Ucraina orientale), ieri hanno provocato le contro-sanzioni russe contro l’import agricolo e alimentare dall’Europa. Anche per l’Italia, sarà un bel danno economico. Resta in sospeso, poi, il problema della Crimea, la regione nel Mar Nero che la Russia ha annesso a marzo, dopo un referendum-farsa e un attacco militare effettuato senza spargimenti di sangue. Tuttora resta un buco nero geopolitico, una regione non controllata da Kiev e non riconosciuta da Mosca. Un’altra polveriera.

Nagorno Karabakh. In quest’altra regione dell’ex Unione Sovietica, sono ripresi violenti combattimenti fra gli eserciti armeno e azero, che controllano una fetta di territorio dell’Azerbaigian abitata da una maggioranza armena. In realtà, non c’è nulla di nuovo in questo conflitto, scoppiato una prima volta nel 1988, quando venne represso dalle truppe sovietiche, poi ancora nel 1991 quando l’Urss collassò. Finito nel 1994, con un fragile cessate il fuoco, continua a rimanere latente da vent’anni. Da luglio, i combattimenti fra armeni e azeri si sono intensificati nella regione di Agdam, a maggioranza azera, ma a ridosso dei territori armeni. I governi di Baku ed Erevan si minacciano reciprocamente, usando toni molto duri. Quella che, apparentemente, è solo una serie di sparatorie fra vicini di villaggio, in realtà può essere la premessa di un grande conflitto. L’Azerbaigian, Paese esportatore di petrolio, dispone di un esercito di 4 volte superiore rispetto a quello della vicina Armenia. Ma quest’ultima gode dell’appoggio pressoché incondizionato della Russia che, in caso di invasione, interverrebbe certamente.

Corea. Nonostante la visita del Papa in Corea del Sud, la tensione lungo la “cortina di bambù” è ancora molto forte. Il regime della Corea del Nord, infatti, continua a provocare il Sud e la comunità internazionale con esercitazioni di missili balistici (vietati da più di una risoluzione Onu) e annunciando ad ogni occasione un nuovo test nucleare. Che per ora, fortunatamente, non ha ancora effettuato. Dopo la grande paura dell’anno scorso, quando il regime comunista di Pyongyang pareva quasi in procinto di scatenare una guerra, oggi la situazione, al confronto, sembra molto calma. Ma l’istrionico e giovane dittatore Kim Jong-un ci ha abituati a mille sorprese, le sue mosse sono totalmente imprevedibili. Tutto è possibile.

Sempre in Asia orientale, si è accesa di nuovo la contesa fra Cina e Giappone sulle isole Senkaku. In questo caso, è stata “provocata” da alcuni nomi: il governo di Tokyo ha battezzato gli scogli che costituiscono l’arcipelago delle Senkaku e il regime di Pechino l’ha preso come un’offesa. Infatti, la Repubblica Popolare Cinese non riconosce la sovranità nipponica su quel tratto di mare. Dopo il battesimo delle isole, navi della guardia costiera cinese hanno fatto intrusione in acque territoriali giapponesi. Tokyo ha risposto facendo volare pattuglie aeree sull’arcipelago. Difficile che si arrivi a una guerra vera e propria, considerando la posta in gioco. Ma il Giappone sta comunque avviando, da due anni, un ambizioso progetto di riarmo e ha emendato la sua costituzione, anche per rispondere a questo tipo di crisi. Potrebbe essere la premessa di una grande guerra (si spera solo fredda) in Asia.

Africa. I conflitti nel continente nero sono i più dimenticati di tutti. Chiunque vinca, non sposta gli equilibri internazionali, benché gli interessi economici in ballo, soprattutto petroliferi, soprattutto in Nigeria, siano molto consistenti anche per l’Italia. Quasi tutti i conflitti in corso, seguono un’unica linea che divide l’Africa, musulmana e di influenza araba, da quella nera, sub-sahariana. In Nigeria prosegue la catena di efferati attentati, rapimenti e massacri condotti da Boko Haram, la milizia jihadista che agisce impunita nel Nord del Paese. A questa minaccia, l’esercito regolare nigeriano risponde con estrema durezza, massacrando civili e radendo al suolo interi villaggi. La guerra nigeriana, proprio come il virus di ebola, inizia a contaminare gli Stati vicini. Anche in Camerun, infatti, le milizie di Boko Haram iniziano a far danni, condurre rapimenti e attentati. Il Mali, nonostante la presenza dell’esercito francese, continua ad essere un’area altamente instabile, con un Nord (Azawad) secessionista dove gli jihadisti sono ancora una minaccia. Un altro paese spaccato su questa linea di faglia è la Repubblica Centrafricana, dove la minoranza musulmana radicale era riuscita a imporre il suo regime prima di essere scacciata da una contro-insurrezione. Attualmente, nonostante vi sia un tentativo di governo di unità nazionale, le milizie islamiche di Seleka e quelle cristiane e animiste del movimento Anti-Balaka continuano a compiere orrendi massacri. Pace instabile anche nel Sud Sudan, animista e cristiano: appena si è reso indipendente dal Sudan (islamico) del Nord, si è spaccato su linee tribali e rivalità di potere interne. Più a Est ancora, la Somalia continua ad essere un campo di battaglia fra il governo e le milizie jihadiste Shebaab, che rischiano di esportare il terrore anche nel vicino Kenya. L’Africa, benché sia l’eterna ignorata, rischia di diventare un pericolo per tutto il mondo: un incubatore di jihadisti, incontrastati dai governi locali, finanziati dal mondo islamico radicale, pronti a impossessarsi di armi da tutti gli arsenali di Stati falliti. L’origine dell’ultima vampata jihadista è stata sicuramente la guerra di Libia (2011), il lungo conflitto civile che ha sparso armi e tossine estremiste ovunque nel continente nero. La Libia stessa, proprio in queste settimane, è precipitata di nuovo nel caos. Il generale Haftar ha preso il potere per condurre un’azione più decisiva contro le milizie jihadiste di Ansar al Islam. E queste ultime, alleandosi con i Fratelli Musulmani, hanno lanciato una poderosa controffensiva, espugnando Bengasi e proclamando la nascita di un loro Emirato. È una guerra a un’ora di volo dalle nostre città, che ci vede, nostro malgrado in prima linea. Anche se noi ignoriamo quel che succede nel mondo, spesso è il mondo che irrompe in casa nostra.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:48