Riflessioni sulle mille   “tregue” di Israele

Israele annuncia una tregua unilaterale e ritira tutte le sue forze di terra su posizioni difensive. La tregua è stata annunciata ieri, alle ore 8 del mattino, ora locale. Dovrebbe durare 72 ore. Finora (fino al pomeriggio di ieri, per chi legge) la tregua ha retto, ma pochi si fanno illusioni.

Si tratta, infatti, della settima tregua che viene annunciata dall’inizio dell’operazione Protective Edge, l’8 luglio scorso. Le altre sono state annunciate il 17, il 20, il 26, il 28, il 30 luglio e l’1 agosto. In tre casi (26 e 28 luglio, 1 agosto) le sospensioni dei combattimenti erano state chieste da Hamas e accettate da Gerusalemme. In tutti i casi, senza eccezione, Hamas ha violato la tregua, anche poche ore dopo il suo annuncio. Per ironia della sorte, il 26 luglio, i pacifisti israeliani avevano indetto a Tel Aviv una manifestazione contro la guerra: è stata subito interrotta per il lancio dei razzi da Gaza. Probabilmente, qualcuno dei manifestanti non sarà più un pacifista.

La tregua annunciata ieri, giusto per confermare la regola, rischiava di saltare fin da subito. Il lancio di altri razzi contro l’area di Shfela e Gerusalemme, proprio a ridosso dell’orario di inizio del cessate il fuoco, stava per far saltare tutto di nuovo. Contrariamente alle volte precedenti, però, gli attacchi non sono proseguiti. Almeno fino al pomeriggio di ieri la tregua ha retto.

Le molte tregue di Israele impongono una riflessione di più ampio respiro. Non sono da intendersi come interruzioni temporanee di questo conflitto per poi arrivare alla pace. Non sono armistizi, tanto per intenderci. Anche prima dell’8 luglio, infatti, a gaza proseguiva una guerra a bassa intensità, con lanci di razzi più sporadici da parte di Hamas e risposte mirate da parte dell’aviazione israeliana. Dalla fine del 2012 al luglio 2014, Israele ha vissuto in una condizione di tregua instabile. Dal gennaio del 2009 all’autunno del 2012 ha vissuto un’altra tregua. Non c’è una pace, ci sono interruzioni temporanee delle ostilità. Queste interruzioni non sono continuate, ma sono punteggiate da una miriade di azioni militari minori che, molto spesso, non fanno neppure notizia (se non nella stampa israeliana).

Anche questa tregua, che regga o meno, non è una soluzione. Nessuno si illude che la guerra ricomincerà. È da qui che, benché tutte le tregue siano violate da Hamas, i nostri commentatori più politicamente corretti si affrettano a dire che “Netanyahu non ha una strategia di ampio respiro”. Come prova, citano la ripresa continua delle ostilità. Eppure, nel 2008-2009, ai tempi del primo grande conflitto di Gaza, non c’era Netanyahu, ma Ehud Olmert, un centrista, non certo un “falco”. Eppure la guerra c’era lo stesso.

Il problema è, appunto, da cercarsi nell’altra parte del conflitto: Hamas. Che, come abbiamo già ampiamente e ripetutamente detto su queste colonne, continua a non riconoscere lo Stato di Israele e mantiene nel suo statuto articoli molto chiari che legittimano, su basi religiose, l’uccisione degli ebrei. Come tutti i portavoce di Hamas continuano ad affermare, dal 2005 (presa del potere a Gaza) ad oggi, la pace è una “illusione dei sionisti”. Il loro obiettivo è lo sfiancamento del nemico, fino alla sua cacciata dal Medio Oriente.

Dunque, perché Israele proclama tregue quando, dall’altra parte, c’è un nemico che non le considera neppure teoricamente? Quando la controparte di Gerusalemme è un movimento terrorista che non accetta neppure l’esistenza di Israele, non ne vuol sapere di fare la pace e continua a uccidere, la reazione più razionale sarebbe la sua distruzione militare: la cattura o l’uccisione dei capi di questo movimento e il disarmo delle sue forze militari. Così tentano di fare anche gli Stati Uniti in Afghanistan e ovunque abbiano a che fare con Al Qaeda. Ma Israele non lo può fare con Hamas. La prima motivazione è la pressione dei regimi mediorientali vicini. In questo caso, nel 2014, il governo Netanyahu aveva buone ragioni per pensare che Hamas fosse più isolato del solito, dopo la sua rottura con l’Egitto di Al Sisi (che ha iniziato a incarcerare i Fratelli Musulmani e ha bandito Hamas dal suo territorio), la fine del flusso di armi dalla Siria (a causa della guerra civile), il cambio di rotta moderato dell’Iran. In questo conflitto, tuttavia, l’Egitto ha, almeno in parte, collaborato con Israele, ma Siria e soprattutto Iran si sono rivelati ancora degli alleati preziosi di Hamas. E questo nonostante siano entrambi alleati della Russia, che vanta rapporti sempre migliori con Israele.

L’isolamento di Hamas, insomma, c’è fino a un certo punto. E soprattutto, la stessa Autorità Palestinese lo ha sostenuto militarmente e politicamente nel corso di tutto il conflitto, nonostante abbia subito centinaia di vittime per mano del movimento al potere a Gaza. Il governo Netanyahu, ora, approfitta della posizione più equilibrata di Al Sisi per rivolgersi a lui, quale mediatore. Ieri, subito dopo l’inizio della tregua, una delegazione israeliana è volata al Cairo per aprire un nuovo round di negoziati. Sarà in competizione con la delegazione dell’Autorità Palestinese, che ha preceduto al Cairo quella israeliana e ha già dettato sue condizioni per la pace: tutte richieste (dalla riapertura dei valichi di Gaza, al regalo di un aeroporto per Hamas) che Israele non può accettare, se non vuole rischiare la sua stessa estinzione.

Soprattutto ha pesato, ancora una volta, l’opinione pubblica occidentale, che ha influito soprattutto sulle decisioni del governo degli Stati Uniti e su quelli delle democrazie europee. Obama, alla fine di luglio, nelle sue proposte negoziali, ha addirittura fatto proprie alcune delle condizioni di Hamas, come la fine dell’embargo a Gaza. Nel governo britannico, la pressione è stata tale che il ministro della difesa, la baronessa Warsi (musulmana) ha rassegnato le sue dimissioni, perché considerava il governo Cameron troppo incline ad accettare la politica israeliana. Per convincere l’opinione pubblica occidentale che l’Idf non è una banda di barbari criminali, i militari con la stella di David hanno fatto di tutto per limitare vittime civili e danni collaterali. Hanno sperimentato tecniche inedite, come il “bussare sul tetto”: avvertire i civili dell’arrivo di un attacco sulla loro casa, a costo di svelare in anticipo al nemico i propri piani. Nelle operazioni di terra è stato fatto un uso estremamente prudente dell’appoggio aereo, prova ne è che le perdite fra i militari israeliani (63 morti) sono più alte rispetto ai precedenti conflitti.

Eppure, per l’opinione pubblica occidentale, mossa da quelli che, ormai, sono riflessi condizionati e slogan automatici, si è fatta strada l’idea che a Gaza fosse in corso un “genocidio”, o comunque un “massacro indiscriminato” di civili. Tra appelli, boicottaggi, manifestazioni di massa, i governi che rispondono al loro elettorato hanno dovuto fare pressione su Israele finché l’Idf non si è fermata. Fino al prossimo conflitto.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:51