La Libia e Sarkozy,   il peccato originale

“A Tripoli! A Tripoli! Tripoli bel suol d’amor... sventoli il tricolore”. Per chi non lo sapesse è un vecchio canto coloniale italiano. Infatti, nel caos libico a sventolare è rimasto quasi solo il Tricolore. Gli altri? Cent’anni dopo è andata a finire allo stesso modo, tanto da poter affermare che in Libia, dopo Muammar... il diluvio! Meglio dileguarsi, tanto il disastro si è compiuto.

Il peccato originale o sarebbe meglio dire: il “peccato d’interessi” fu commesso da Nicolas Sarkozy, il 10 marzo 2011. Il presidente francese, attraverso le sue fonti, fece sapere alla Nato, e al mondo intero, che la sua Francia era pronta a bombardare, anche da sola, la Libia di Gheddafi, investita in quel periodo dall’ondata di proteste della fallimentare, sanguinosa, effimera, inutile cosiddetta “primavera Araba” con tutto il suo “rosario” di reazioni, di proteste, di azioni, culminate, infine, con il baratro: la morte di quel Colonnello, che da bambino, essendo io cresciuto in un posto più a sud di Tunisi, faceva paura, quando lanciava qualche obsoleto missile su Lampedusa e Pantelleria ma che consideravo un vicino di casa un tantino “malacarne”. Spietato sì, ma abile nel mantenere la stabilità in una società complessa come quella libica, a forte impronta tribalistica e regionale, dunque segnata da profonde differenze sociali e culturali. Quando Gheddafi fu trucidato qualcuno disse “ci siamo liberati di un tiranno”, ma sappiamo ora come sta andando in Libia, tra l’indifferenza dell’Europa e della Comunità internazionale. Un massacro, non l’inizio del baratro ma il de profundis per tutto il Mediterraneo.

A guardare la situazione attuale della Libia, la lettura migliore, quella più eclatante diciamo, è stata quella degli Stati Uniti che attraverso il segretario di Stato John Kerry, hanno deciso di chiudere l’ambasciata a Tripoli. “La sicurezza deve venire per prima”, hanno fatto sapere. “Abbiamo dovuto prendere questa misura perché la nostra ambasciata si trova molto vicina ai violenti scontri tra le fazioni armate libiche”. Lanciando, peraltro, un appello accorato ai propri connazionali: “Non andate in Libia. E se ci siete, andatevene”.

In Libia, non solo a Tripoli si vive una grave e complessiva fragilità del quadro di sicurezza, minata da fattori di diversa matrice, all’interno del quale possono trovare spazio anche azioni di natura terroristica. Nel Paese persistono costanti elementi di tensione suscettibili di trovare repentine manifestazioni in forma non pacifica, che fanno leva sulla perdurante impossibilità per le forze dell’ordine governative di garantire un effettivo controllo del territorio. Altro che “bel suol d’amor”, un massacro stando alla dichiarazioni che l’ambasciatore italiano Buccino ha rilasciato in un intervista a Souad Sbai, pubblicata domenica dal quotidiano “Il Tempo”.

Dopo la caduta di Gheddafi, infatti, due sono stati i fattori che hanno contribuito a determinare questa situazione esplosiva: l’instabilità politica e il dilagare del network jihadista, capace in pochi mesi di propagarsi in tutta l’area dell’Africa settentrionale.

La fragilità e la mancanza di una legittimazione unanime dei vari governi che si sono succeduti in questi anni (a partire da quello di Jibril, eletto premier ad Interim dopo le prime elezioni democratiche del 2012, ma costretto a dimettersi quasi subito per l’azione dei Fratelli Musulmani) hanno impedito alle autorità di estendere il proprio controllo su tutto il territorio del Paese, proteggendo i propri confini.

Il risultato ovviamente è stato un bagno di sangue. Primo perché oggi lungo tutti i confini libici transitano un numero impressionante di uomini, merci di contrabbando e armi; secondo perché tra le guardie di confine e le bande jihadiste si scatenano ormai quasi quotidianamente sanguinosi conflitti armati che rendono impossibile una stabilizzazione del quadro politico e sociale.

In questo quadro fortemente preoccupante la comunità internazionale (l’Unione Europea, in primis) è rimasta immobile, fallendo non solo l’individuazione di una soluzione diplomatico-militare alla vicenda, ma lasciando in mano all’Italia quel cerino pericoloso rappresentato dagli sbarchi di migranti, arrivati a quota 67mila dall’inizio dell’anno. È su questo terreno decisamente fertile che i jihadisti hanno deciso di muoversi, infiltrando in queste masse di disperati veri e propri “profeti” della Guerra Santa, con l’unico scopo di fare proseliti e arruolare nuovi martiri.

Un rischio concreto per l’Italia, per l’Europa, per l’Occidente intero. A tal punto che la logica suggerisce alcune considerazioni piuttosto lapalissiane: non erano meglio Gheddafi, l’accordo italo-libico sui respingimenti e il difficile ordine che il Colonnello era riuscito a instaurare nel suo Paese dopo la rivoluzione della Grande Jamahiriyya?

Sì. Magari andrebbe chiesto a chi ha acceso la miccia libica nel marzo 2011. Sì, avete capito bene: stiamo parlando di quel galantuomo d’Oltralpe che rivelò, nel febbraio 2013, all’emittente televisiva Euronews, che Silvio Berlusconi, visto sui cartelloni a Tripoli, insieme a Gheddafi in atteggiamento di affettuosa amicizia, “si stava prendendo il petrolio e il gas libico”.

La miccia ora è accesa, si è consumata e la deflagrazione ha fatto esplodere un conflitto pericoloso, tanto da far elevare il livello d’allerta a tutte le “cancellerie” del pianeta, da Oslo a Rabat, da Londra a Ottawa. È L’Italia? Suvvia, “Tripoli non vale una messa”, meglio fare un tour a Maputo o in Angola.

A questo punto delle cose serve un intervento globale e condiviso di alta diplomazia che arresti l’escalation di violenza, che annienti le pretese di Al Baghadadi, dell’Isis e dei Fratelli musulmani e che riporti la pace senza mezze misure o fughe nazionalistiche, che fanno tanto male alla ragione dell’uomo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:44