Gaza, raid israeliani:   ma di chi è la colpa?

L’escalation bellica di Israele contro le milizie di Hamas è l’ovvia conseguenza alla strategia della provocazione di marca terrorista. Perciò è davvero deplorevole assistere alle ambigue prese di posizione assunte, in queste ore, da alcuni Paesi occidentali. Non è possibile che si faccia di tutta un’erba un fascio, mettendo sullo stesso piano il legittimo diritto di Israele alla difesa delle proprie popolazioni e le azioni criminali di un gruppo terroristico.

Israele non è Hamas. Gli attentati e i lanci di razzi non sono ascrivibili all’operato di forze di liberazione di un territorio illegalmente occupato da una potenza straniera. Gli israeliani non ci sono nella Striscia di Gaza, l’hanno lasciata già da nove anni. Si dice, osservando il numero relativamente basso di vittime civili ebraiche, che in fondo Israele non avrebbe sofferto più di tanto la guerriglia di Hamas. Se sono stati “solo” 70 i cittadini israeliani che hanno perso la vita dal 2001, per effetto dei bombardamenti indiscriminati di Hamas, è merito del sistema di difesa antimissilistico cupola di ferro, non certo della pietà dei carnefici.

Qualcuno, anche dalle nostre parti, straparla accusando Israele di crimini di guerra. Anche in questa circostanza si fa strame della verità. Per il diritto bellico, si configura come crimine di guerra ogni atto compiuto deliberatamente contro civili inermi. Non è il caso dell’Idf (Israel defence forces) che, prima di iniziare l’azione di bonifica di un sito sospettato di ospitare attività terroristiche, provvede ad avvisare con una telefonata i civili presenti nell’area target, invitandoli ad allontanarsi. La verità, scomoda da pronunciare per i nostri osservatori “politically correct”, è che per un’accolita di vili criminali senza scrupoli resta più utile servirsi di donne e bambini come scudi umani, di modo che il loro sacrificio sia mediaticamente profittevole nei rapporti con la comunità internazionale.

Non ci sono poveri cristi pronti a combattere per difendere la loro terra, ma assassini che uccidono con lo scopo di spaventare e annientare il nemico storico. Un esempio? I miliziani di Hamas, oltre ai 107 missili del primo giorno in risposta all’operazione barriera protettiva, ne hanno lanciato almeno altri tre, presumibilmente del tipo M302-Khaibar, contro la centrale nucleare di Dimona. Il sistema cupola di ferro è stato in grado di neutralizzarli prima che raggiungessero l’obiettivo. Ciò non toglie nulla al fatto che i terroristi abbiano provato a innescare una catastrofe nucleare.

Se, dunque, la comunità occidentale volesse attenersi, nella vicenda di Gaza, a uno stretto criterio di giustizia e di verità, non avrebbe altra opzione che condannare senza appello l’operato di Hamas. Tuttavia, nel voler ricercare le ragioni di questa escalation, della quale, per paradosso, l’attivismo criminale di Hamas costituisce l’effetto e non la causa del problema, ci imbatteremmo nella responsabilità grave dei dirigenti dell’Autorità Nazionale Palestinese che hanno mandato al macero il processo negoziale di pace. Dopo aver chiesto a Israele di compiere gesti impegnativi e dolorosi, come la liberazione di un cospicuo numero di palestinesi detenuti per gravi reati contro la sicurezza dello Stato, il presidente Abu Mazen si è dimostrato irremovibile su due questioni che sono poste a fondamento dell’esistenza d’Israele. La prima riguarda il riconoscimento del diritto a uno Stato sovrano ebraico in quell’area. La seconda attiene allo status della città di Gerusalemme che Abu Mazen vorrebbe totalmente sotto la giurisdizione del nascente Stato di Palestina.

Ora, come si può pensare di cacciare gli ebrei, sradicarli dal luogo della loro storia, lì dove tutto è cominciato? La verità è che i dirigenti palestinesi si sono accomodati al tavolo delle trattative sapendo in partenza che quel percorso non avrebbe avuto alcuno sbocco. Non c’è voglia di riconoscere quella che dovrebbe essere un’ovvietà: due Stati per due popoli. Essi perseguono ancora il sogno di realizzare uno Stato palestinese all’interno del quale riconoscere la presenza di una comunità aggregata del popolo ebraico. Vi sembra che questa possa essere una soluzione condivisibile?

Probabilmente non vi è interesse alla pace se, nel momento più delicato del negoziato, il presidente Abu Mazen con un colpo a sorpresa si sia riconciliato con Hamas, creando a un Governo di unità nazionale comprendente esponente del gruppo terrorista. Se così non dovesse essere, se ci sbagliassimo nel giudicare le vere intenzioni dell’Autorità Palestinese, soltanto Abu Mazen potrebbe smentirci avendo nelle mani la leva d’arresto di questa pericolosa Intifada. Riprenda immediatamente i negoziati con la delegazione israeliana, si dissoci solennemente dal comportamento e dalle aspirazioni di Hamas e provveda al più presto ad assicurare alla giustizia i responsabili, ancora latitanti, dell’infame eccidio dei tre giovani israeliani dello scorso giugno.

Insomma, dia prova di buona volontà. Non ci faccia dubitare del fatto che, quando era in Vaticano, ospite di Papa Francesco, a pregare per la pace insieme al presidente israeliano Shimon Peres, lo stesse facendo davvero e non stesse invece pensando ad altro. Magari alle prossime rimesse di denaro in arrivo dalla “generosa” Unione europea.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:51