Negoziati nucleari,   il prezzo dell’Iran

Giovedì 3 luglio è cominciato a Vienna il sesto e ultimo round dei negoziati nucleari tra l’Iran e il “P5 +1” (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania). I negoziatori avranno tempo fino al 20 luglio per trovare un accordo finale, ma sono ancora tante le questioni sul tavolo e molti cominciano a nutrire seri dubbi circa l’esito dei lavori entro quella data. Una ulteriore proroga è tecnicamente possibile ma è condizionata dall’accordo di tutte le parti in causa.

Le precedenti sessioni si erano tenute nella città svizzera a novembre dello scorso anno e a maggio. Il 20 novembre 2013 si era raggiunta un’intesa temporanea, valida sei mesi ma prorogabile per altri sei, che era entrata in vigore il 20 gennaio 2014. In base all’accordo, l’Iran doveva sospendere l’arricchimento dell’uranio oltre il cinque per cento, diluire metà delle sue scorte di esafluoruro di uranio arricchito al venti per cento e convertire il resto in ossido di uranio per impedirne l’arricchimento; interrompere la ricerca e lo sviluppo del suo programma di arricchimento; non attivare il reattore ad acqua pesante di Arak dove si sospettava potessero produrre plutonio e permettere l’accesso degli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica agli impianti di arricchimento già realizzati.

In cambio, i Paesi “5+1” e l’Unione europea avrebbero alleggerito le sanzioni contro l’Iran, sbloccando 4,2 dei 60 miliardi di dollari iraniani congelati nelle banche estere. Restava invece in vigore la maggior parte delle sanzioni, che hanno di fatto ridotto le esportazioni petrolifere iraniane dai 2,5 milioni di barili al giorno del 2011 a meno di un milione e determinando un mancato guadagno per le casse iraniane tra i quattro e gli otto miliardi di dollari al mese.

L’accordo definitivo che le parti puntano a raggiungere a Ginevra dovrebbe prevedere da parte di Teheran una limitazione del suo programma nucleare che impedisca di produrre una quantità di uranio, arricchito al novanta per cento, sufficiente a costruire armi atomiche e in cambio la cancellazione completa delle sanzioni.

Però, uno dei punti cruciali ancora in discussione, è quanta capacità di arricchimento dell'uranio verrebbe permessa al regime di Teheran. Alla vigilia della riunione del 3 luglio, Iran e Stati Uniti hanno mostrato qualche segno di stanchezza, con i responsabili della politica estera dei due Paesi che si sono punzecchiati a vicenda. Il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, replicando a dichiarazioni del segretario di Stato statunitense John Kerry, ha dichiarato che il suo paese è pronto ad adottare ulteriori misure per ribadire la natura pacifica del programma nucleare iraniano, ma che non intende sottomettersi ad alcun tipo di pressione straniera, da qualunque parte essa arrivi.

Kerry, in un articolo apparso sul Washington Post, aveva espresso la propria frustrazione per la lentezza da parte del regime di Teheran nell’applicare le misure decise con l’accordo di novembre e aveva aggiunto che la pazienza ha un limite e i negoziati non possono andare avanti per sempre.

Il clima rischia di surriscaldarsi ulteriormente dopo il discorso che il leader supremo, l'ayatollah Ali Khamenei, ha tenuto ai professori dell’Università di Teheran in concomitanza con l’inizio della riunione di Ginevra. Secondo la Guida Suprema, l'Iran avrebbe bisogno di 190mila centrifughe nucleari, rispetto alle 10mila che l’Occidente sarebbe disposto a concedere.

Al di là della dialettica colorita dei vari protagonisti, in un gioco di pretattica negoziale, gli Stati Uniti e gli altri Paesi si rendono conto dell’imprescindibilità di Teheran nel complesso scacchiere medio-orientale; l’offensiva islamista in Iraq e le ripercussioni in Siria e Libano fanno del regime di Teheran una delle pedine essenziali nell’equilibrio di quella tormentata regione, specialmente in funzione di contenimento dell’avanzata islamista sunnita.

Il presidente Obama ha ribadito che gli Stati Uniti non intendono inviare nuove truppe in Iraq e ha confermato il programma di ritiro dei soldati americani dall'Afghanistan nel 2015. Sulla Siria la posizione della Casa Bianca resta ferma. Molti degli spazi strategici lasciati dagli americani in Iraq sono stati coperti da consiglieri iraniani e risultano contatti sempre più frequenti tra esperti di Teheran e uomini dell’intelligence di Washington. Non è poi un segreto che i piloti iraniani stanno attaccando obiettivi degli integralisti islamici dell’Isil nel nord dell’Iraq, grazie alle segnalazioni degli agenti a stelle e strisce.

Anche in Siria i miliziani del partito filo-iraniano Hezbollah stanno sostenendo le truppe di Bashar Al Assad contro le infiltrazioni dei guerriglieri sunniti islamisti, legati ad Al Qaeda, provenienti dall’Iraq. Senza l’appoggio operativo diretto dell’Iran, Hezbollah non avrebbe alcuna capacità di manovra. E tutto sembra avvenire sotto lo sguardo assente degli americani.

Insomma, l'attivismo di Teheran viene considerato a Washington come il male minore in una situazione regionale assai complessa e rischiosa per gli interessi americani. Così torna alla mente il ricordo dell’aiuto americano al nemico iraniano nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein ai tempi del colonnello North e dello scandalo Iran-Contras. C’è quindi da aspettarsi che la realpolitik prevalga su tutto il resto. Gli americani e le altre delegazioni potrebbero cedere alle richieste iraniane di un’ulteriore proroga ai negoziati sul programma nucleare in cambio di un’energica azione degli uomini di Teheran, per arginare l’ondata degli estremisti islamisti sunniti in Iraq e negli altri paesi del Medio Oriente.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:48