Libia: che cosa   sta succedendo?

Il 25 giugno scorso, in un clima di paura e seggi chiusi in alcune circoscrizioni per timori di attentati, si sono svolte le elezioni politiche in Libia, le seconde in meno di due anni dalla fine di Gheddafi nel 2011. Si sapranno però solo il 20 luglio i risultati, come ha annunciato la Commissione nazionale elettorale. L’affluenza alle urne è stata piuttosto bassa: gli elettori sono stati circa 630mila, ovvero il 45 per cento del milione e mezzo di registrati, su un totale di quasi 3 milioni e mezzo di aventi diritto.

Le elezioni, a detta di molti analisti, libici e non, sono l’ultima possibilità per salvare il Paese dall’anarchia e dal caos. I 200 deputati del nuovo parlamento libico, la Camera dei Rappresentanti, che dovrebbe aver sede a Bengasi, capitale della Cirenaica, sostituiranno il Congresso Nazionale che era stato eletto nel luglio del 2012 per traghettare la Libia verso la pacificazione e la stabilità, redigere una nuova costituzione e spianare la strada per la formazione di un governo nazionale.

Tuttavia, gli obiettivi troppo ambiziosi affidati all’Assemblea costituente, in un Paese che era uscito malconcio dai quarantadue anni di duro regime del colonnello Gheddafi e ancor di più dalla sanguinosa guerra civile del 2011, non hanno prodotto alcun risultato. Dalle elezioni del 2012 il Paese ha sbandato da una crisi all’altra, gli scontri clanici sono esplosi un po’ dappertutto e si è acuita la frattura, insanabile, tra i due maggiori blocchi politici, da una parte i Fratelli Musulmani con i loro alleati, dall’altra l'Alleanza delle Forze Nazionali guidata da Mahmoud Jibril, ex collaboratore poi oppositore di Gheddafi ed esponente della tribù dei Warfalla, una tra le più potenti in Libia.

Il Congresso Nazionale e il governo ad interim, per i continui veti incrociati e le opposizioni dei diversi partiti e dei clan, non sono riusciti nel tentativo di porre basi solide per un futuro assetto istituzionale della Libia; non sono state create strutture statali funzionanti, la corruzione è dilagata, il paese è vissuto nel caos e nell’anarchia e nella totale assenza dello Stato centrale. La situazione si è addirittura aggravata quando i tentativi di disarmare le milizie e di integrarli in un nuovo esercito nazionale sono falliti; sono sorte invece bande armate che hanno cominciato a rapire libici facoltosi e lavoratori stranieri (due sono gli Italiani ancora sequestrati) per ottenere riscatti in denaro. A peggiorare le cose, il Congresso Nazionale si è trovato in un drammatico stallo quando, superato il periodo di tempo previsto dalla Dichiarazione costituzionale, i deputati degli opposti schieramenti non sono neppure riusciti a trovare un consenso su un rinnovo del proprio mandato, per completare la stesura della nuova legge fondamentale.

Il fallimento del Congresso ha ulteriormente indebolito l’unica autorità democraticamente eletta del Paese, diminuendo la popolarità dei suoi membri, molti dei quali leaders della rivoluzione contro Gheddafi, tra la popolazione libica ormai esausta dopo anni di sofferenze e di conflitti. Altre forze che erano stato messe da parte dopo la caduta del Colonnello si sono fatte avanti, presentandosi come i salvatori della patria. Tra questi, il tentativo del generale Khalifa Haftar è stato forse il più significativo. Il generale, originario della Cirenaica, 71 anni, aveva partecipato al colpo di stato del 1969 che aveva portato al potere Muammar Gheddafi. Nel 1987, alla testa delle truppe libiche nella guerra al Ciad, era stato catturato, quindi liberato dagli Americani ed era rientrato a Bengasi solo nel marzo 2011, dopo lo scoppio della rivolta contro il Colonnello.

Nominato capo delle forze di terra dal Consiglio nazionale di transizione, braccio politico della ribellione, aveva riunito molti ufficiali del regime che avevano abbandonato Gheddafi in extremis. Il Governo ad interim lo aveva poi messo da parte perché ritenuto non leale. Nei mesi passati, Haftar ha radunato resti del vecchio esercito libico e sostenuto dai federalisti e dall’Alleanza delle Forze Nazionali di Jibril ha dichiarato di voler “ripulire” Tripoli e le altre principali città libiche dai terroristi fondamentalisti. Le tribù più forti della regione occidentale della Libia hanno assicurato il loro sostegno ad Haftar. Elementi dei vecchi servizi segreti, le forze speciali e gran parte dell’Aeronautica si sono uniti con le truppe del generale, dandogli così un certo vantaggio sui suoi avversari; rispetto alle altre milizie, vicine ai Fratelli Mussulmani e alle tribù orientali, gli uomini di Haftar sono più organizzati e meglio addestrati e contano su una fitta rete di alleanze, in particolare nella parte occidentale del paese. Haftar e i suoi uomini stanno sfidando la legittimità del Congresso nazionale e del governo di transizione, che invece contano sull’appoggio armato delle tribù berbere orientali della zona montuosa di Nafusa e della città di Misurata. In mezzo a questa confusione crescente, le elezioni del 25 giugno sono viste come l’ultima opportunità per evitare una guerra civile su vasta scala. Finora, gli scontri si sono limitati alle zone orientali, ma la tensione potrebbe facilmente esplodere in modo capillare, inghiottendo grandi città, da Misurata a Bengasi ed estendersi ulteriormente. Antiche dispute tra tribù e clan potrebbero riacuirsi in un gioco al massacro di tutti contro tutti.

Se il conflitto dovesse incendiarsi in tutta la Libia, alcuni analisti vedrebbero anche possibili rischi di coinvolgimenti mirati dell’Egitto e dell'Algeria, per mettere in sicurezza le proprie frontiere. In ogni caso, la Libia oggi è a un bivio assai pericoloso. Se il dialogo politico tra le parti, nel tentativo di costruire un consenso nazionale, che porti al completamento della transizione democratica, basata sulla volontà popolare ed espressa pacificamente attraverso le urne, dovesse fallire, allora è probabile che il paese entrerà in uno stato di conflitto armato che vedrà inghiottire l'intero paese o grandi parti di esso, con conseguenze catastrofiche.

C’è dunque da augurarsi che le elezioni del 25 giugno abbiano segnato un nuovo inizio, che possa far superare le vecchie e mai sopite divergenze tra gruppi etnici e clan, che hanno provocato violenze e caos negli ultimi mesi, e lasciare invece spazio al dialogo pacifico e democratico tra quelle forze politiche che sono state artefici della rivoluzione contro il regime di Gheddafi e che devono ora costruire la nuova Libia.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:45