Israele, non c’è alcuna   “spirale di violenza”

Il giorno dopo i funerali di Eyal, Gilad e Naftali, i tre ragazzi israeliani rapiti e assassinati da terroristi palestinesi lo scorso 12 giugno, un ragazzino palestinese, un diciassettenne di nome Mohammed Abu Khdair, è stato rapito fuori dal negozio di suo padre, in un sobborgo palestinese di Gerusalemme Est. Il giorno stesso il suo corpo, mezzo carbonizzato, è stato ritrovato in un bosco nei pressi di Gerusalemme. Si è subito pensato a una vendetta a caldo, condotta da nazionalisti ebrei. Ma la polizia israeliana sta ancora indagando ed è possibile che il colpevole sia anche un palestinese. Non è esclusa l’ipotesi che il ragazzino sia stato ammazzato in una faida interna alla Palestina e spunta anche la pista sessuale (ucciso perché gay?).

Tutte le ipotesi sono sul tappeto, sinché non si chiuderà l’indagine. Ma la rabbia palestinese è esplosa comunque e sia a Gerusalemme che in altre città a maggioranza araba, da due giorni si combatte una dura guerriglia urbana. Il parallelo è facile fra l’uccisione di tre ragazzini ebrei e l’assassinio di un ragazzino palestinese, proprio nel giorno della rabbia e del cordoglio. Viene facile, a tutti gli esponenti governativi occidentali, a partire dal segretario di Stato americano John Kerry, cavalcare l’ondata di indignazione palestinese e rovesciare le stesse accuse di violenza contro i civili che, fino a 24 ore prima, erano rivolte al terrorismo palestinese.

In un’ottica di “processo di pace”, ogni goccia di sangue versato, da una parte e dall’altra, segna un passo falso verso la “spirale di violenza”, fatta di azioni e reazioni, altro luogo comune usato da media e diplomatici per descrivere il conflitto mediorientale. In realtà non è possibile tracciare alcun parallelismo fra Israele e Palestina. Prima di tutto, è bene ricordarlo, è ancora in corso l’indagine della polizia. Anche se quella della vendetta nazionalista è l’ipotesi più probabile, non è affatto detto che sia quella vera. È anche possibile (con gran sconcerto per la maggioranza dei media) che Abu Khdair non sia stato ucciso da ebrei israeliani. Purtroppo la verità giudiziale emerge lentamente, mentre le emozioni forti corrono nell’arco di poche ore.

Se si dovesse scoprire fra qualche settimana, o qualche mese, che l’assassino del ragazzo palestinese è un altro palestinese, sarebbe già troppo tardi: nel frattempo Israele è già stato condannato dalla comunità internazionale e i palestinesi sono già in piena sommossa. Viene da pensare al caso precedente di Muhammad al Dura, bambino palestinese ammazzato assieme a suo padre sotto gli occhi delle telecamere di France 2 il 30 settembre 2000, nei primi giorni della Seconda Intifada. La versione secondo cui era stato ucciso da soldati israeliani venne definitivamente smontata solo 8 anni dopo: era stato colpito da proiettili palestinesi nel corso di uno scontro a fuoco. Nel frattempo Al Dura divenne il simbolo dell’Intifada, costò agli israeliani centinaia di vite in attentati terroristici di rappresaglia, venne persino citato da Osama Bin Laden, più volte, nei suoi sermoni di propaganda per i reclutamenti in Al Qaeda.

Non è possibile tracciare un parallelo fra i due omicidi, proprio perché nel secondo caso è in corso un’indagine approfondita da parte della polizia di Israele. Perché, se un cittadino israeliano uccide un innocente, è considerato un assassino, viene ricercato e, quando viene trovato, viene arrestato, indipendentemente dalla sua etnia o religione, come avviene in tutte le nazioni civili. I presunti assassini palestinesi di Eyal, Gilad e Naftali, invece, sono ricercati dalla polizia… israeliana, non da quella palestinese, che pure esiste e opera nel territorio di Hebron e nella cittadina di Halula dove è avvenuto il triplice delitto. I due presunti assassini sono membri di Hamas, un partito armato cooptato nel governo di unità nazionale palestinese. Hamas ha negato ogni responsabilità nell’assassinio, ma non ha affatto condannato il gesto.

In compenso, sono sempre miliziani armati di Hamas che, ogni giorno, dall’inizio del mese, lanciano razzi contro Israele: solo ieri sono state colpite e gravemente danneggiate due case a Sderot, città del Negev occidentale. L’omicidio di Abu Khdair, i cui contorni, è bene ripeterlo, non sono ancora chiari, è già stato prontamente condannato dal presidente della repubblica israeliano, Reuven Rivlin: “Sembra che possiamo perdere il controllo e dobbiamo tornare immediatamente alla sanità (mentale, ndr). Il popolo ebraico fu escluso dalla terra di Israele per 2000 anni a causa dell’odio. Noi amiamo la terra di Israele senza aver bisogno di definire il nostro amore attraverso l’odio per altri popoli (…) Non possiamo degenerare in una guerra tribale.

Noi siamo una nazione, non una tribù”. Dopo l’omicidio dei tre ragazzi israeliani, da Abu Mazen, presidente dell’Autorità Palestinese non erano arrivate parole altrettanto chiare, altrettanto contrarie all’odio che monta nel suo popolo. Nella pagina Facebook del suo partito, Fatah, è apparsa subito una vignetta che mostra una mano palestinese che tiene una canna da pesca da cui pendono tre topi marcati sul dorso con la Stella di David. Sotto, una didascalia che dice: “Un colpo da maestri”. Diverse, opposte, anche le reazioni personali dei parenti coinvolte. A solo un giorno dal funerale del loro figlio, i genitori di Naftali Frenkel, appresa la notizia dell’assassinio di un suo coetaneo palestinese, hanno deciso di pubblicare un comunicato che recita: “Se un giovane arabo è stato ucciso per motivi nazionalistici, allora questo è un orrendo, un orribile atto”. La madre di uno dei presunti killer palestinesi di Naftali Frenkel, invece, dichiara a La Stampa di sentirsi “orgogliosa” di suo figlio, per l’omicidio di cui è ancora solo sospettato. Basta questo per capire chi e che cosa ha fatto fallire un’altra volta il “processo di pace”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:51