Difesa anti-missile,   l’ombrello della Nato

Occorrono pochi minuti affinché un missile lanciato dal Mediterraneo o dal Golfo Persico possa colpire un Paese europeo. L’Iran, con il suo programma missilistico è stato al centro dell’attenzione mediatica mondiale, anche se ora sembra aver preso una direzione più pacifica con il presidente Rouhani. Ma la proliferazione di missili balistici, anche con gittata intercontinentale è inarrestabile e sempre più facile da diffondere a settant’anni esatti dal lancio delle prime V2 tedesche su Londra durante la Seconda guerra mondiale. È quindi meglio aprire l’ombrello contro questo tipo di minaccia latente: lo scudo anti-missile, sognato da Reagan ai tempi della Guerra Fredda, è ora una tecnologia affidabile e disponibile. E dal 2009 la Nato ha deciso di adottare una sua difesa missilistica integrata.

Su quanto sia avanzato questo progetto si sa poco, nonostante la sua importanza per la nostra sicurezza. Ne abbiamo parlato con il generale italiano Alessandro Pera, che è direttore del programma Altbmd acronimo di Active Layered Theatre Ballistic Missile Defence, che può essere tradotto come “difesa attiva a strati contro missili balistici di teatro”.

“Nel 2005 la Nato aveva avviato un programma di difesa missilistica delle sue forze inviate in missioni fuori-area. Solo dal 2010 ha deciso di espandere questa protezione anche ai territori e alle popolazioni civili in Europa – ci spiega il generale – Negli ultimi quattro anni la Nato ha dovuto affrontare un programma molto più vasto di quello inizialmente previsto. Si tratta di superare delle difficoltà in più, oltre che di coprire un’area immensamente maggiore. Se infatti le forze in campo sono mobili e ben equipaggiate per proteggersi, le città non lo sono. Cambia la natura stessa dell’obiettivo da proteggere: un’area vasta, indifesa, fissa, ben identificabile. E una città non può essere evacuata in 10 minuti. Per prevenire un impatto diretto, lo si ingaggia in volo per distruggerlo, ma ci sono alcune possibilità che i pezzi di questo missile possano cadere sulle truppe e i soldati sono pronti (con la loro mobilità e protezione) a minimizzare o annullare questi effetti. Per difendere una città, al contrario, non possiamo permetterci questo margine di incertezza”.

Gli Scud iracheni lanciati su Tel Aviv, in Israele, nel 1991, venivano anche colpiti dai missili Patriot Pac-2, ma i loro detriti hanno provocato danni molto gravi alle strutture e perdite alla popolazione. Ora si cerca di ovviare a questo problema, in primo luogo con il progresso tecnologico: “All’epoca della Guerra del Golfo si usavano i Pac-2, ora c’è il Pac-3 ed entrerà a breve in linea il Pac-3 Mse che ha ancora maggiori possibilità di distruggere il bersaglio. Il sistema è hit to kill: colpisce direttamente il missile per ottenere il massimo effetto distruttivo. Le conseguenze dell’intercettazione possono non essere del tutto eliminate. Ma bisogna anche pensare a cosa sarebbe l’impatto di un missile non intercettato, che colpisce con la sua testata un obiettivo scelto dal nemico. L’effetto di una semplice testata convenzionale può creare gravi distruzioni e un duro effetto psicologico. I frammenti di un missile possono danneggiare i piani alti di qualche casa, ma non creare la devastazione di una testata esplosa sul bersaglio. Un secondo modo di ridurre i danni consiste nell’estensione del raggio d’azione degli intercettori e la costituzione di una difesa multi-strato: uno strato alto al di fuori dell’atmosfera e uno basso all’interno dell’atmosfera, per avere una seconda possibilità di ingaggio”. Per poter ingaggiare il missile al di fuori dell’atmosfera “C’è un solo sistema a disposizione della Nato, che è l’Sm-3, per lo strato più basso c’è il missile franco-italiano Samp/T e il Patriot Pac-3”.

L’obiettivo della Nato è soprattutto quello di “costituire un sistema di comando e controllo integrato”. I sistemi d’arma, gli “shooters” che i Paesi membri hanno deciso di mettere a disposizione “non sono moltissimi e quindi è importante che li si utilizzi nel modo più razionale possibile. Lo stesso vale per i sistemi di scoperta: tutti assieme sono un buon sistema, individualmente, nei singoli Paesi, sarebbero meno efficaci. La struttura di comando della Nato ha dunque la possibilità di esercitare una funzione di comando e controllo assegnata dalle singole nazioni. E questo deve avvenire in un contesto di maggior contenimento possibile della spesa della Difesa”. Si tratta di “un sistema puramente difensivo, non è in grado di arrecare una minaccia ad alcun Paese. Di fatto è uno scudo ad alta tecnologia”.

Per quanto riguarda i tempi di schieramento: “Esattamente come programmato, abbiamo conseguito una prima capacità di comando e controllo effettiva nel dicembre del 2010. Un primo esercizio operativo di questa capacità di difesa è la protezione del Sudest della Turchia, dalla minaccia di possibili missili dalla Siria, con batterie di Patriot Pac-3 dispiegati da Olanda, Germania e Stati Uniti e un sistema di comando e controllo della Nato. E si parla di un’area abitata da circa 3 milioni di persone: è uno sforzo significativo dell’Alleanza per proteggere un proprio Paese membro. Sono già operativi nel Mediterraneo i sistemi Sm-3 imbarcati. Sono già a disposizione (ma non ancora schierati) i missili Samp/T. Sono necessari ancora alcuni anni per ottenere una difesa di tutto il territorio europeo. La data entro cui si dovrebbe completare tutta l’architettura è il 2020. Ma questo non vuol dire che da oggi al 2020 siamo scoperti. Se vogliamo fare un paragone nella vita di tutti i giorni, è come se oggi avessimo un’auto di media cilindrata, nei prossimi anni ne avremo una di grossa cilindrata e infine una di lusso, nel 2020”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:49