Ho letto su alcuni media italiani, la cui lungimiranza lascia spesso a desiderare, che al-Sisi sarebbe “il male minore” per l’Egitto. Che sarebbe quasi un prezzo da pagare per gli egiziani affinché non ricadano nelle mani dell’estremismo e della Fratellanza Musulmana. Dico subito e con chiarezza che non sono d’accordo, perché se oggi possiamo ancora parlare di Egitto lo dobbiamo a lui e ai trenta milioni che con lui sono scesi in piazza. Alla cacciata di Morsi e al ristabilire l’equilibrio in un Paese che versava nel caos e nel terrore, alla mercé di un gruppo dirigente incapace, oltre che inadatto a governare un Paese complesso e pieno di difficoltà come la terra dei Faraoni.
Alle presidenziali di fine maggio saranno in due a contendersi la poltrona al Cairo, al-Sisi appunto e Sabahi, un vecchio socialista di stampo nasseriano; ma la scelta degli egiziani appare piuttosto chiara, già dalle prime battute della campagna elettorale, a favore del generale che ha “salvato” l’Egitto, dopo aver dato a Morsi l’opportunità di fare qualcosa per il Paese, e ha riportato speranza. Siamo chiari anche su questo. Non mi è sfuggito che, come sempre quando ci sono i militari al potere (cosa peraltro a cui gli egiziani sono abituati), l’uso della forza spesso travalichi i paletti della continenza, ma ho letto con attenzione anche i nomi di quelle centinaia di arrestati e poi condannati. E di certo non mi parevano pacifici attivisti che gridavano allo scandalo per la potatura di qualche albero, anzi, tutto il contrario. Impersonano e incarnano quel pericolo che ancora incombe sul Cairo e che porta il nome e il cognome della Fratellanza Musulmana, che ha imbottito l’Egitto di paura e di terrore nel breve periodo del governo Morsi e che oggi, quando è tornata ad essere realtà fuorilegge, medita di colpire ancora al cuore della devastata economia egiziana, ovvero al turismo, unica valvola di ritorno di capitali e di un minimo di sopravvivenza.
I due candidati si fronteggiano a colpi di programmi e di annunci sensazionali, ma al-Sisi, a ben vedere, ha già detto e fatto quanto doveva e poteva, fermando l’escalation estremista e riportando l’ordine. La sua idea di riallacciare i legami con Unione Europea e Usa ha toccato le corde giuste per chi, come imprenditori e industriali egiziani, oggi risentono profondamente di un certo abbandono da parte di quel mondo che aveva caldeggiato e in alcuni casi sponsorizzato i Fratelli Musulmani, per poi pentirsi e fare marcia indietro. Sicurezza, eliminazione del terrorismo e nazionalismo, questi i cardini del nuovo Egitto che al-Sisi ha in mente. E che con ogni probabilità riuscirà a costruire se qualcosa non andrà storto e se qualcuno, arrivando da fuori l’Egitto, non deciderà di dare battaglia a suon di bombe e kamikaze.
“Giustizia, democrazia e indipendenza”, un tris di idee e proposte che non fanno certo intravedere il generale, come qualcuno ha detto, alla stregua di un nuovo faraone. Le urne, come sempre, diranno la loro e l’affluenza dirà se l’Egitto avrà capito una volta per tutte la lezione dell’estremismo al potere. Al-Sisi viene visto, in patria, come l’uomo forte di cui l’Egitto ha sempre avuto bisogno e che spesso ha accompagnato la sua storia recente, con esiti altalenanti e spesso incerti. Ma i tempi sono ora maturi per una democratizzazione della terra dei faraoni e per una svolta da troppo tempo attesa, nella speranza che l’esito delle urne, che in molti descrivono solo come una formalità, non sia snobbato o peggio osteggiato dall’Europa e dall’Occidente, che hanno avuto lo stomaco di sostenere Morsi e di non voler raccontare cosa davvero è accaduto quando cadde Mubarak. Ricordo bene come la Ashton si recò da Morsi prima che il suo governo cadesse definitivamente per le proteste di popolo.
Sbagliare una seconda volta significherebbe dire addio ai rapporti con il più grande Paese a maggioranza musulmana del mondo e far sfumare un sogno di politica euro-mediterranea che ci portiamo appresso dagli anni Novanta e che sarebbe davvero, una volta per tutte, la liberazione dal giogo di chi, da oltreoceano, spesso decide della nostra vita e della nostra morte. Per l’Egitto di oggi al-Sisi è l’unica soluzione.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:51