Le foto satellitari erano una “moda” della Guerra Fredda. Quando vengono declassificate per essere mostrate al grande pubblico, diventano un atto politico. Il significato della pubblicazione delle foto dei missili sovietici installati a Cuba, nell’ottobre del 1962, era chiarissimo: “Vi abbiamo scoperti, non fate altri passi avanti o scoppia la guerra”. Kennedy le mostrò in tivù per far sapere al mondo di quanto fosse consapevole della minaccia e per annunciare la sua risposta: il blocco di Cuba. Altre foto satellitari, quella volta dell’Urss, vennero mostrate in televisione dal presidente Reagan, nel suo celeberrimo discorso sulle “guerre stellari” del 1983. In quel frangente il presidente statunitense voleva giustificare il più costoso programma di riarmo della storia recente degli Usa, facendo vedere quanto i sovietici si stessero armando. Le foto mostravano gigantesche fabbriche militari e penetrazioni sovietiche nel Nicaragua, per risvegliare un’opinione pubblica ormai assuefatta a un decennio di pacifismo post-Vietnam.
Altre foto satellitari vengono mostrate, proprio in questi giorni, dai comandi della Nato. Hanno già fatto il giro dei media di tutto il mondo e mostrano la concentrazione di truppe russe ai confini orientali dell’Ucraina. Qual è il loro significato politico?
Nella sua conferenza stampa a Praga, l’altro ieri, il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha spiegato che le foto satellitari mostrano un progressivo aumento delle forze russe ai confini ucraini, fino a 40mila uomini dotati di ogni necessario equipaggiamento per condurre una campagna militare. Sono divisioni intere che “non si stanno esercitando, ma sono pronte all’azione”. Lo scopo di Rasmussen è mostrare agli Alleati che la Russia non scherza. Cose che parevano relegate al passato, come l’invasione di un Paese vicino, sono state già compiute da Mosca, a partire dalla Crimea e nell’immediato futuro, come mostrano queste foto, probabilmente anche in Ucraina orientale. Tutto sommato basta una scintilla per far scattare il meccanismo. E il materiale incendiario, in quella zona, è particolarmente denso: basti pensare che i russi che hanno occupato le sedi istituzionali di Donetsk, Luhansk e Kharkiv, proclamando l’indipendenza di locali “repubbliche popolari”, hanno respinto la prima offerta di amnistia da Kiev, dicendosi pronti a combattere. Se la mediazione del premier del governo provvisorio Arseny Yatsenyuk dovesse fallire, potrebbero scoppiare incidenti militari. I 40mila regolari russi ammassati alle frontiere sono lì proprio per quello: sfruttare ogni minimo incidente militare per intervenire.
Com’era prevedibile, Mosca ha negato l’autenticità delle foto satellitari mostrate alla stampa dalla Nato, dichiarando che fossero state scattate un anno prima, nel corso di un’esercitazione. Ma per dimostrare che fossero vere e scattate nel marzo del 2014, la Nato ha diffuso le foto del 2013 e inizio 2014 e poi quelle del marzo del 2014: nel periodo indicato dai russi non c’erano truppe, in quello successivo sì. Dunque i russi stanno realmente ammassando il loro esercito.
Ma in caso di offensiva, la Nato cosa ci potrebbe fare? Ragionevolmente parlando: niente. E allora a cosa serve diffondere foto satellitari sulla concentrazione militare russa e dimostrare fermamente la loro autenticità? Prima di tutto, per mostrare a tutti chi sia l’aggressore. Se la guerra dovesse scoppiare, sarebbero tutte prove da mostrare a chi dovesse mostrarsi ancora riluttante sulle sanzioni economiche contro la Russia. Ma, nell’immediato, servono a motivare una maggior spesa militare da parte dei Paesi Nato per la difesa di un confine orientale troppo a lungo trascurato. Lo dice chiaro e tondo Fogh Rasmussen: “Mentre ci prepariamo al nostro summit del Galles del prossimo settembre, dobbiamo preservare la forza delle nostre capacità (militari, ndr). E potenziare l’addestramento delle nostre forze. Soprattutto dobbiamo fermare il declino dei nostri bilanci della difesa. E riprendere gli investimenti nella nostra sicurezza”.
Questo è il senso, alla fine. Non si tratta di mostrare un nemico pronto a minacciarci a casa nostra e contro cui si deve agire, come fece Kennedy nel 1962. Si tratta di far vedere al pubblico quanto è pericoloso un potenziale nemico che sta invadendo un suo vicino. Cosa che, un domani non lontano, potrebbe fare anche con noi. È triste dirlo, se ci si cala nei panni di un ucraino, ma alla fine il suo Paese sarà il nostro “canarino nella miniera”, un test per vedere quanto siamo protetti o indifesi di fronte a un potenziale aggressore. Per le nostre leadership, mostrare la pericolosità dell’esercito russo, con queste foto sgranate, significa ripetere lo stesso messaggio di Reagan dell’83: “O (riaprite i cordoni della) borsa o (potete anche perdere) la vita”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:49