Perché la Russia faceva parte del G8?

La Russia è ufficialmente sospesa dal G8. La prossima riunione al vertice degli otto grandi si sarebbe dovuta tenere proprio a Sochi, il simbolo della “nuova Russia” trionfante, la città nuova, costruita con un investimento straordinario di 52 miliardi di dollari, per fungere da vetrina nel mondo. La prossima estate, almeno, rimarrà vuota, a mo’ di simbolo dell’isolamento in cui si è andato a ficcare il Cremlino. Gli altri 7 grandi si incontreranno a Bruxelles, sede dell’Ue e della Nato.

Che significato ha questa sospensione? Le reazioni russe sono tiepide. Il ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, minimizza: “Mosca non ha bisogno di quel club elitario, tanto c’è anche il G20”. Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, proprio ieri dichiarava di voler mantenere contatti “a tutti i livelli” con i partner del G8. Tutti, a Mosca, hanno percepito le differenze di toni fra gli Usa e i partner europei. Questi ultimi non hanno mai parlato di espellere la Russia dal G8, esprimono la chiara volontà di non voler emarginare il Cremlino, di ritornare a discutere con la sua leadership il prima possibile, non appena la bufera ucraina sarà passata. Quindi, a Putin, non resta che attendere. Perderà qualche investimento, ma sa che un’Europa appesa alla sua canna del gas (in Italia le importazioni di gas russo coprono il 30% del nostro fabbisogno energetico) non potrà che addolcire i toni.

L’espulsione dal G8 non sortirà alcun effetto pratico, è più una questione politica e di principio. La Russia, quando vi entrò nel 1998, era in piena crisi economica e politica. Rischiava di non contare più nulla nella comunità internazionale, anche se continuava a detenere il più grande arsenale nucleare del mondo. Allo stesso tempo, era ancora la Russia di Eltsin, memore del passato comunista e ancora desiderosa (sempre meno, ma lo era ancora) di diventare una moderna democrazia liberale. Questo mix di paura per una nuova aggressività nucleare e speranza per una riforma liberale, ha spinto il G7 ad aprire le porte alla Russia, benché Mosca non avesse affatto i numeri per entrarvi a far parte e tuttora non li abbia. Alla fine la Russia è riuscita a ristabilire la sua crescita economica, ma come l’ha usata? Per le riforme? Per completare la sua lunga transizione dall’autoritarismo alla democrazia di mercato? No. Putin l’ha usata per rilanciare il suo autoritarismo all’interno e la sua politica espansionistica all’estero, prima a spese della Georgia, adesso a danno dell’Ucraina. Che senso ha, dunque, mantenere la Russia nel G8? Semplicemente nessuno. Se non la paura folle dei partner europei di ritrovarsi di nuovo con il nemico alle porte.

Lo stesso si può dire per la partnership della Russia nella Nato, uno dei successi diplomatici vantati dal Governo Berlusconi, con gli accordi di Pratica di Mare nel 2002. Ma da allora ad oggi, quante volte la Mosca di Putin e Medvedev si è comportata da “partner”? Praticamente mai. Ostile alla guerra in Iraq, ostile al progetto di installare uno scudo anti-missile (in funzione anti-iraniana) in Europa centrale, nessuna collaborazione all’intervento Nato in Libia, ostilità aperta alla politica statunitense in Siria, protezione dell’Iran e delle sue ambizioni nucleari contro Israele. Che partner è una potenza contraria a tutti i tuoi interessi? La prima prova provata che la Russia fosse un falso partner della Nato fu nel 2008: al solo sentore di una richiesta di accesso all’Alleanza Atlantica della vicina Georgia, i russi provocarono il casus belli e arrivarono fino alle porte di Tbilisi, fin quasi sul punto di rovesciare il presidente Mikhail Saakashvili. Perché? Perché avrebbe voluto entrare in un’alleanza che teoricamente era “partner” del Cremlino. In Ucraina si sta ripetendo esattamente la stessa dinamica: non appena c’è il sentore che il nuovo governo ucraino possa avvicinarsi a Nato e Ue, la Russia procede con il sottrargli il controllo di una regione strategica, la Crimea, in una logica di conflitto aperto con l’Occidente, non di partnership.

Perché, dunque, continuare con queste finzioni? Perché tenere la Russia nel G8 quando non lo merita? O in una partnership Nato, quando si dimostra apertamente ostile a quell’alleanza? La risposta è sempre quella: la paura. Il terrore che la Russia torni a minacciare l’Europa occidentale con i suoi missili nucleari, suo unico argomento di persuasione. Tuttavia, vista l’involuzione della politica russa, con un vicepresidente della Duma (il solito pittoresco Vladimir Zhirinovskij) che arriva a proporre una spartizione territoriale dell’Ucraina fra i suoi vicini, come ai tempi di Stalin, con le truppe russe saldamente schierate in Crimea, con le armate pronte a invadere il resto dell’Ucraina, con un nuovo casus belli che può essere sfruttato da Putin (la richiesta di intervento da parte della Transnistria, conficcata in mezzo all’Ucraina occidentale e a due passi dalle basi Nato), deve far più paura, a questo punto, una Russia “inclusa” nelle grandi istituzioni internazionali, che non una Russia isolata e debole.

Se l’inclusione genera questi mostri, meglio buttarli fuori dalla porta. Henry Kissinger, ricordato ieri anche sulle colonne di questo quotidiano, negli anni ‘70 promuoveva la “distensione” con l’Urss e oggi ripropone la stessa ricetta, magari passando attraverso la neutralizzazione, o “finlandizzazione” dell’Ucraina. Ma Kissinger, che piace alla gente che piace e dice sempre quel che i politici (specialmente quelli europei) vorrebbero sentirsi dire, quando fu alla testa della politica estera americana non ne azzeccò una. Pensò di fare una pace con il Vietnam del Nord e perse la guerra in due anni. Pensò di non intervenire al fianco di Israele nel ‘73 e per poco non fece scoppiare una guerra atomica in Medio Oriente (sentendosi isolato, il governo di Gerusalemme aveva già posto in stato di allerta le sue forze nucleari). Con l’Urss avviò la distensione, col risultato che Mosca si aggiudicò, in meno di un decennio: Etiopia, Mozambico, Angola, Nicaragua, Afghanistan. E persino il pacifista Jimmy Carter dovette cambiar passo per rimediare agli errori distensivi del predecessore.

Ci volle Ronald Reagan, con meno di dieci anni di lotta dura contro l’Impero del Male, per riuscire a indurre Gorbachev a cambiare rotta e far la pace con l’Occidente, ponendo fine a mezzo secolo di guerra fredda. Vladimir Putin viene dal Kgb, da quel settore del Kgb che vuol vendicare l’umiliazione subita allora. È stato agli ordini di Andropov e di Krjuchkov, egli stesso parla lo stesso linguaggio di quella vecchia guardia che preparava la guerra contro la Nato e che capì che era il caso di fermarsi solo quando andò a sbattere contro un muro opposto da Reagan. Oggi, continuare a tenere la Russia dentro i massimi club internazionali, dal G8 alla Nato, usandoli come una sorta di gigantesca terapia di gruppo, incoraggerebbe Putin ad andare avanti con le sue pretese territoriali.

Isolare il Cremlino, forse, farebbe capire all’ex colonnello del Kgb che è ora di smettere di testare la pazienza dell’avversario. L’espulsione dal G8 dovrebbe essere solo un primo passo simbolico. Nuove sanzioni dovrebbero seguire, nel caso di altre mosse azzardate in Ucraina o Transnistria. Certo, purtroppo, Obama non è Reagan.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:44