Gli esiti scontati del voto francese

Stupisce che ci si stupisca della buona affermazione, nelle elezioni amministrative francesi, della destra del “Front National” di Marine Le Pen. Tutti gli indicatori davano in crescita questa formazione politica che ha fatto della battaglia all’Europa dei burocrati e dei banchieri il suo marchio di fabbrica. Le ragioni del successo di “blu Marine” vanno essenzialmente ricercate nel fallimento del sistema di welfare transalpino e nell’incapacità del presidente Hollande, icona della sinistra italiana, di fornire risposte adeguate alla crisi che sta impoverendo i francesi. Tuttavia, rileva il dato, che i francesi hanno chiaramente espresso, di un voto che è anche di contestazione alle politiche recessive praticate dall’Unione Europea.

Da tempo gli osservatori più avveduti segnalano un costante rialzo delle quotazioni, in tutta l’Unione, dei partiti schierati contro le politiche di Austerity volute dal governo tedesco, sussidiato dai Paesi del blocco del Nord. Ad essere precisi, nel grande flusso del voto di protesta contro l’attuale establishment radicatosi nei palazzi del potere a Bruxelles, confluiscono due opposte correnti. Da una parte si collocano coloro che sostengono la necessità di ritornare, attraverso l’abolizione della moneta comune, a scelte di politica economica più patriottiche, cioè mirate alla difesa delle condizioni di benessere delle rispettive comunità nazionali, mediante l’accentuazione del legame identitario con i territori. Dal versante opposto, ha preso corpo la corrente di coloro che pure chiedono meno Europa, ma per le ragioni contrarie a quelle manifestate dai cosiddetti populisti. Sono, ad esempio, i militanti del partito tedesco di “Alternative für Deutschland”. Costoro predicano la fine della moneta unica allo scopo di abbandonare al proprio destino quei Paesi che essi giudicano poco virtuosi e, come tali, possibili cause di future perdite per le economie forti del continente.

Fatto sta che i voti degli uni mischiati a quelli degli altri faranno inevitabilmente massa critica negli assetti del futuro Parlamento Europeo. Quale impatto tali forze avranno sulla politica dell’Unione è presto per dirlo. È probabile che spingeranno, mediante un’azione di involontaria convergenza, verso la rottura degli attuali equilibri al punto che le leadership degli Stati membri dovranno decidere se cambiare rotta, in particolare nelle politiche di contenimento della finanza pubblica dei singoli Stati, oppure sancire la fine dell’unità come è conosciuta oggi, in vista della ricompozione di un nuovo equilibrio funzionale a un diverso metodo, meno coesivo, d’integrazione europea. È presumibile che tornerà di moda l’idea di un’Europa a due velocità, con due diverse monete e differenti regolazioni dei mercati interni di riferimento. E l’Italia? Il nostro Paese è come le stelle in un romanzo di Cronin: sta a guardare.

Sfugge ai molti protagonisti della politica nostrana, impegnati ad azzuffarsi sulle questioni spicciole del cortile di casa, che dal voto francese emerga un elemento destinato a riprodursi anche in altri scenari nazionali, compreso quello italiano. Il voto in quantità consistente all’ultradestra lepenista indica lo scollamento tra l’idea politica del moderatismo e la categoria sociologico-economica del ceto medio, che quell’idea ha tradizionalmente sorretto e della quale ha a lungo costituito il blocco sociale di riferimento. In Italia, in particolare, un’area politica definita moderata, tradizionalmente identificata come di centrodestra, cioè fortemente radicata al centro con tendenze di allineamento verso i valori della destra liberale, oggi sta implodendo. La congiuntura economica negativa degli ultimi anni è all’origine del collasso di questo blocco sociale. Ma non è la sola responsabile. Ad essa si è accompagnata, come misura di riparo, una politica del rigore che può essere giudicata omicidiaria rispetto ai fondamenti sociali che sostenevano i livelli di benessere del ceto medio produttivo. La sua rottura ha determinato la frammentazione in più parti di quello che un tempo era un corpo granitico. Una frazione di esso, non essendo stata particolarmente toccata dalla crisi (è il caso del pubblico impiego), si è ricollocata in una nuova dimensione. Per comodità di linguaggio potremmo definirla la “sfera dei garantiti”. Un’altra parte si è ricomposta con persone che sono state ugualmente colpite dalla crisi dei consumi, dalla contrazione della domanda, dal blocco del credito. Tuttavia sono riuscite a contenere la perdita di ricchezza senza che si annullassero i margini di profitto delle proprie attività lavorative. Costoro permangono in una condizione limite rispetto ai parametri individuati per l’inclusione nella sfera del benessere. Una terza parte, forse la più consistente, invece è precipitata dal punto di vista della condizione economica andando a lambire, e in alcuni casi a investire in pieno, la sfera della povertà. Costoro, che hanno eroso il piccolo risparmio grazie al quale, in passato, potevano accedere a livelli di benessere sostenibile, oggi configurano i nuovi ceti emarginati e, in quanto fenomeno sociale del tutto nuovo, possono essere etichettati come “gli invisibili”. Il loro stato effettivo sfugge alle analisi e alle ricette della politica tradizionale, giacché la complessità delle problematiche di cui sono portatori è tale da non essere compresa dalle forze politiche abituate a operare avendo come punti di riferimento scale assiologiche oggi del tutto superate. Chi sono costoro?

Prevalentemente quelli che, a prescindere dal loro stato giuridico di dipendenti, lavoratori autonomi, pensionati, liberi professionisti, commercianti, imprenditori, hanno visto ridursi sensibilmente o perdersi la fonte di reddito. In genere sono coloro contro i quali la macchina dello Stato si è abbattuta con maggiore violenza. Sono i perseguitati da Equitalia. Sono quelli lasciati a piedi dai grandi imprenditori che vanno a fare affari altrove. Sono i tartassati caduti sotto il peso di una tassazione insostenibile. Sono i traditi dal sistema del credito. Sono le vittime sacrificali del crollo della domanda interna. Sono gli anziani usciti dal mencato del lavoro che hanno visto dimezzarsi il potere d’acquisto delle loro pensioni. Sono i senza-speranza che, per età o per scarsa o nulla patrimonializzazione, non hanno mezzi sufficienti per ricominciare. Sono tutti coloro che, non vedendo futuro, sono sul punto di compiere gesti estremi. Sono i tanti Eddy de Falco (piccolo panificatore di Casalnuovo di Napoli coniugato con tre figli minori a carico) che, per far cessare un sopruso, si attaccano non alla fede, non alla ragione, non all’orgoglio, non alla vita, ma al tubo del gas di scarico dell’automobile. Ma per quanti cedano, molti ve ne sono pronti a incendiare le piazze. Quello dei forconi è stato solo un assaggio.

Tutti costoro non possono più essere definiti “moderati”, non è più quella la loro naturale collocazione politica. E il partito che non lo comprende rischia di naufragare nelle urne. Invocare l’unità dei moderati oggi è come bussare a una porta che nessuno aprirà per il semplice motivo che non c’è nessuno rimasto ad ascoltare il suono del campanello. Altre strade dovrà ricercare il centrodestra per porre argine all’onda di piena del populismo montante che qui da noi ha la faccia di un comico tignoso che, francamente, non ha mai fatto ridere. Eppure, per il bene del nostro Paese, oggi ci deve preoccupare il suo piglio arrogante e il suo fare da novello Robespierre. Anche il padre del Terrore fu, come il suo epigono nostrano, sedicente incorruttibile, demagogo da mercato delle pulci e falso profeta.

Reciti pure Grillo vestito da giacobino, se proprio vuole. La parte gli riesce bene. Ma non dimentichi quale destino ebbe il suo eroe. Fatto fuori dai suoi stessi sodali che lo ghigliottinarono al grido di “morte al tiranno!”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:52