Abu Mazen-Obama: altro buco nell’acqua

Nei giorni scorsi si è tenuto a Washington l’atteso incontro tra Obama e il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Abu Mazen. Il colloquio si è incentrato sullo stato dei negoziati di pace israelo- palestinesi.

L’inquilino della Casa Bianca si è speso per convincere l’interlocutore palestinese della necessità di proseguire nella trattativa anche accettando di prendere qualche rischio nell’assumere “decisioni difficili”. Identico invito rivolto due settimane prima all’altro interlocutore, il premier israeliano Netanyahu. Tuttavia, sul punto nodale del negoziato: il riconoscimento di Israele quale Stato nazionale ebraico, non si sono registrati passi in avanti. Abu Mazen ha assunto una posizione molto rigida che non offre spazi alla speranza. Per i palestinesi si valutano già sufficienti le lettere di mutuo riconoscimento, sottoscritte nell’ambito dell’accordo di Oslo del 1993, mediante le quali, da un lato, il governo israeliano accettava l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) come legittimo rappresentante del popolo palestinese, dall’altro l’Olp riconosceva il diritto a esistere dello Stato di Israele rinunciando al terrorismo, alla violenza e cassando dal prorio statuto la finalità della sua distruzione. Cos’altro si vorrebbe dopo tanta generosità, si saranno chiesti i palestinesi?

Piuttosto, Abu Mazen ha mostrato esclusivo interesse a ricevere il sostegno americano per convincere il governo di Gerusalemme a procedere alla scarcerazione dell’ultimo stock di detenuti palestinesi, come previsto dai patti pre-negoziali. Nulla di strano se non fosse che il diavolo, come si sa, si nasconde nei dettagli. E la “pietra d’inciampo” che Abu Mazen ha sistemato sul già difficile sentiero percorso da Netanyahu ha un nome e cognome ben preciso. Anzi, ne ha due. Si tratta della richiesta di includere tra i “liberandi” due terroristi palestinesi di primo rango, tanto che lo stesso Abu Mazen li definisce “due importanti prigionieri”. Di chi si parla? I soggetti in questione sono Marwan Barghouti e Ahmad Sa’adat. Per la propaganda palestinese sono due eroi. Per il codice penale due feroci assassini implicati in atti terroristici di rilevante gravità. Ma conosciamoli meglio.

Ahmad Sa’adat è il segretario del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp), organizzazione a struttura politico-militare di ispirazione marxista-leninista. Gemmato nel 1967 da una scissione del Movimento dei Nazionalisti Arabi, il Fronte ha un curriculum omicidiario e stragista di tutto rispetto. I Paesi occidentali e l’Unione Europea lo hanno inserito nell’elenco delle organizzazioni terroristiche più pericolose al mondo. I suoi membri si sono distinti per azioni criminali non solo in terra d’Israele, ma anche in altre aree dell’Occidente. Il compianto presidente Cossiga si diceva convinto, sebbene l’accusa non fosse mai stata provata, che questo gruppo fosse coinvolto, insieme al superterrorista Carlos, nella strage alla stazione di Bologna del 1980. Il suo attuale leader, Ahmad Sa’adat, è detenuto nelle galere israeliane dove è stato condotto a seguito di un blitz delle forze di sicurezza che, nel 2006, lo hanno prelevato dalla prigione di Gerico, in cui era già detenuto per disposizione della stessa Anp. La giustizia israeliana lo ha condannato a trent’anni di carcere per reati contro la sicurezza dello stato, sebbene a lui venga attribuito l’omicidio del ministro del Turismo israeliano, Rehavam Zeevi, avvenuto a Gerusalemme nell’ottobre del 2001.

Marwan Barghouti è un terrorista molto amato dai palestinesi poiché vedono in lui l’icona dell’eroe e del martire. In passato è stato a capo del Tanzīm-Fath, braccio armato di Fatah. Distintosi nel corso dei combattimenti della Seconda Intifada, per la pianificazione di un gran numero di attentati, “l’eroe” Barghouti ha collezionato condanne a 5 ergastoli, più 40 anni di reclusione per cinque omicidi, un tentato omicidio e altre attività terroristiche. La sua specialità sono le persone inermi: donne, bambini, anziani, preti. Altro che eroe! Un autentico campione di vigliaccheria e un volgare assassino.

Ecco chi sono i “due importanti prigionieri” che Abu Mazen vorrebbe vedere al più presto in circolazione. E non solo lui. La cosa più indecente è che pure dalle nostre parti una variopinta compagnia di giro messa su dai soliti intellettuali della sinistra radical-chic, tutta salotti e bandiera rossa, ha lanciato un appello per la sua liberazione. Ne parlano come di un Mandela redivivo. Lo acclamano combattente per la libertà contro la discriminazione portata avanti, a loro dire, per anni da Israele, novello Stato dell’Apartheid. Che questo criminale senza scrupoli si rivalga su innocenti civili, non fa effetto alle anime belle della nostra intelligencija. Che siano anche le donne a lasciarci le penne per le imprese di Marwan Barghouti, poco importa. Lì il femminicidio non lo facciamo valere. Forse perché sono ebree? Se poi li si accusa di essere degli insopportabili razzisti, antisemiti, vestiti alla moda “de noantri de sinistra” e con la puzza al naso, si offendono. E sventolano, a mo’ di strofinaccio che garrisce al vento, il nome di qualche loro sodale di origini ebraiche che ha firmato l’appello, che ha aderito alla santa causa. E che vuol dire? Dimostrano soltanto che la madre degli utili idioti è sempre incinta, pure di quelli con lo sguardo da asceti.

Tornando all’argomento (si perdoni l’intemerata, ma quando ci vuole, ci vuole!), la sensazione colta nell’atteggiamento americano di Abu Mazen sia che, consapevole dell’impossibilità di mandare avanti seriamente il negoziato, il leader palestinese, alzando il tiro delle richieste da sottoporre a Netanyahu, abbia, con astuzia, ributtato la palla nel campo israeliano. È evidente che, per come sono messe le cose, il problema sia tutto nelle mani dei governanti israeliani. Essi devono scegliere se accettare, obtorto collo, la richiesta palestinese di rimettere in circolazione due pericolosi assassini, generando ancor maggiore sconcerto e confusione presso l’opinione pubblica del loro Paese o, com’è probabile che accada, respingerla al mittente assumendosi agli occhi del mondo la conseguente responsabilità dell’interruzione del negoziato. É più che chiaro che sia Abu Mazen a voler che le trattative si fermino, ma non desidera assumere il peso del fallimento su di sé. Spera che sia l’altra parte a risolvergli il problema. Ne è prova la dichiarazione di Tareq, figlio minore di Abu Mazen, che ha detto martedì al New York Times di “ritenere che i colloqui di pace con Israele siano del tutto inutili e che la soluzione “ad un unico stato” sia l’unica per risolvere pacificamente il conflitto”. Allo stesso modo, Fatah Nabil Shaath, alto dirigente dell’Anp, ha smentito categoricamente la dichiarazione attribuitagli nei giorni scorsi da alcuni media israeliani secondo cui: “una volta appianati i nodi fondamentali del negoziato con Israele, l’Autorità Palestinese potrebbe considerare il riconoscimento di Israele come stato ebraico”.

É chiaro che l’Anp sia uscita allo scoperto, virando decisamente in direzione dell’idea “non più due popoli, due Stati” ma “un solo Stato, arabo-palestinese, dove si tollera la presenza di una comunità etnico- religiosa di fede ebraica”. Se è questo il topolino partorito dalla montagna palestinese, siamo belli che fritti. Con il negoziato non si andrà da nessuna parte. Obama forse ha iniziato a comprenderlo, se è vero che ha sventolato sotto il naso della stampa l’unico risultato raggiunto dopo il colloquio con Abu Mazen. È stato deciso di non decidere. In pratica, il termine ultimo del 29 aprile (stabilito per la fine del negoziato) sarà prorogato per consentire alle parti di continuare nel tentativo di trovare un accordo accettabile per entrambe.

Il bello di essere cittadino del mondo libero sta proprio in questo: puoi credere nell’esistenza di Babbo Natale senza che nessuno te ne faccia una colpa. Al più chiamano un’autoambulanza.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:50