Crimea, la crisi che minaccia il mondo

“Una minaccia, non solo per l’Ucraina, ma per l’intera comunità internazionale”. Così, Joe Biden, ha definito ieri la crisi in Crimea, che procede a passo spedito verso l’escalation militare incontrollata.

A livello locale, la minaccia militare russa di invasione si fa sempre più concreta. Un militare ucraino è stato colpito a morte, una base navale è stata assaltata da soldati irregolari russi e l’ammiraglio (ormai ex) della flotta ucraina in Crimea è stato arrestato dall’Fsb, discendente del Kgb. Abbiamo dunque un morto e un prigioniero fatti dai russi in territorio ucraino. Non è sufficiente per un casus belli, anche perché gli ucraini se ne guardano bene di rispondere al fuoco dei militari russi, giusto per farsi invadere da forze preponderanti. Lo scontro a tutto campo per le regioni orientali ucraine è carico come una molla pronta a scattare. Da un lato, per non perdere del tutto legittimità e credibilità, il governo Yatsenyuk, da Kiev dovrà pure far qualcosa per cercare di riprendersi una regione che è stata strappata con la forza (e un referendum-farsa) al proprio territorio. Dall’altro i russi non vedono proprio l’ora che Kiev faccia la prima mossa. Come in Georgia, nel 2008, sono pronti a sbandierare la subita “aggressione” per lanciare le loro divisioni corazzate direttamente nel cuore dell'Ucraina.

Non vi sono gravi rischi di conflitto fra Russia e Nato, almeno in questa fase della crisi. L’Ucraina non potrà essere difesa militarmente dall’Alleanza Atlantica, essendo al di fuori della sua giurisdizione. La massima ritorsione concepibile, da parte delle democrazie occidentali, è un inasprimento delle sanzioni già in essere. Ed eventualmente un’esclusione della Russia dal G8, come ha iniziato a valutare pubblicamente, sempre ieri, il premier britannico David Cameron. Stati Uniti e Gran Bretagna, con il memorandum di Budapest del 1994, si sono fatti garanti (assieme alla Russia) dei confini dell’Ucraina, ma il memorandum, è bene ricordarlo, non contempla alcun intervento militare in caso di una loro violazione. Washington e Londra prenderanno a pretesto quest’assenza di obblighi per non intervenire. La minaccia per la comunità internazionale si vedrà, piuttosto, nell’immediato futuro. Perché quello della Crimea è un test, una prova di forza, un braccio di ferro fra grandi potenze. Il suo esito farà da precedente per tutte le crisi successive. La Russia deve agire in fretta, prima di finire strangolata economicamente sapendo che, per uno strangolamento vero, ci vogliono anni e una determinazione da parte occidentale che probabilmente non c’è.

L’obiettivo di Putin, per ora, è quello di far accettare il fatto compiuto: la Crimea diventa russa, poi, probabilmente, estenderà la “protezione” anche alle regioni russofone, orientali, dell’Ucraina, dove passano i gasdotti e dove si concentra il grosso del potenziale industriale del Paese. Il tutto avverrebbe in poco tempo. L’Occidente non avrebbe modo di intervenire preventivamente per impedirglielo. Allora si avrebbero conseguenze molto spiacevoli per tutti. Prima di tutto lo scontro in Ucraina serve a Putin per affermare quella che, non dichiaratamente, è la sua corrente di potere favorita: quella dei siloviki (ex militari ed ex spie) e quella degli ideologi eurasisti (imperialisti russi) come Aleksandr Dugin. Sono tutti sostenitori del disegno grande-russo, dell’annessione dei territori russofoni sparsi in tutte le repubbliche ex sovietiche, di un confronto duro con l’Occidente per vincere la corsa agli armamenti dopo averla persa (senza neppure combattere) nel 1991 e del ritorno all’egemonia globale, con basi in Asia, Africa e America Latina. Da questa crisi, dunque, uscirà probabilmente una Russia messianica, espansionista, aggressiva, ideologizzata, con un popolo elettrizzato dal sogno di una rinnovata potenza. Da una Russia così potremmo attenderci qualunque cosa.

Secondo: si affermerebbe il principio secondo cui “i trattati sono pezzi di carta”. Al di là di garanzie, come quella di Budapest, di una Carta dell’Onu che vieta di invadere altri Paesi, di una serie di principi di Helsinki per cui si deve rispettare la sovranità nazionale entro confini internazionalmente riconosciuti, la Russia avrà modo di dimostrare che si può cambiare la carta d’Europa in base ai propri interessi nazionali, come ha sottolineato Joe Biden. Una volta passata questa linea rossa, chiunque (ma soprattutto la Russia) potrebbe violare tanti altri confini tuttora in discussione. Ci sono minoranze russe in Lettonia (circa la metà della popolazione) ed Estonia (almeno un terzo), entrambe membri della Nato. I russi potrebbero spingersi ad annetterle? Probabilmente no. Ma potrebbero comunque tentare di sovvertirle dall’interno, un gioco molto più facile, specialmente per la Lettonia, dove esiste già una maggioranza parlamentare pro-russa. In questo caso, la Nato dimostrerebbe di non poter proteggere i propri confini e cascherebbe a pezzi.

La terza conseguenza molto spiacevole è che, se i trattati sono “pezzi di carta”, l’unico modo per dissuadere un potenziale aggressore resta solo l’atomica. L’estrema destra ucraina propone un riarmo nucleare, ma è solo propaganda: ormai è troppo tardi. L’Ucraina era la terza potenza nucleare del mondo, avendo una fetta dell’arsenale sovietico. Ma vi ha rinunciato nel 1994, in cambio, appunto del pezzo di carta firmato a Budapest quell’anno. Dopo una lezione simile, in tante altre aree del mondo, è pensabile che l’Arabia Saudita non si doti delle sue armi atomiche per far fronte a un'eventuale minaccia iraniana? O che il Giappone, incalzato dalla Cina, non voglia farsi il proprio arsenale indipendente? Se le garanzie statunitensi e britanniche non servono a nulla, come si vede in queste settimane, non resta che la peggiore delle autodifese: quella del “muoia Sansone e tutti i filistei”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:47