Venezuela, “quel che<br / >i media non dicono”

Diffidare sempre di quelli che iniziano un pezzo, o un titolo, con la frase: “Quello che i media non vi dicono”, come se loro fossero l’unico media che dice la verità.

Eppure dobbiamo constatare che del Venezuela i media “non dicono” praticamente niente, nonostante la ribellione della piazza contro il presidente Nicolas Maduro abbia compiuto il suo primo mese. Si contano, secondo un bilancio ufficiale, 21 morti e 318 feriti, oltre a 1322 arrestati, quasi tutti scarcerati dopo un breve periodo di detenzione. Fra i fermati e rilasciati c’è anche una fotografa italiana, Francesca Commissari, collaboratrice del giornale locale El Nacional.

Sul fronte dei manifestanti non c’è una vera e propria organizzazione partitica. Sono studenti, lavoratori, imprenditori, membri del variegato “ceto produttivo” che non hanno più un futuro. A un anno dalla morte di Hugo Chavez e a 15 anni dall’inizio del potere bolivariano, nel Paese non ci sono praticamente più beni di prima necessità. Non se ne rendono conto i dipendenti statali, né i più miseri che vivono nelle favelas, beneficiati delle politiche assistenziali di Chavez e Maduro. Tutti costoro manifestano contro i manifestanti, con metodi brutali e polizieschi, inquadrati in squadre armate, chiamati “collettivi”. Picchiano e sparano: sono loro i responsabili della maggior parte delle vittime. I manifestanti, sui social network e nelle interviste che rilasciano a media stranieri, parlano anche della presenza di militari cubani, accorsi per salvare dalla crisi il loro alleato Maduro. Anche la polizia regolare non scherza. Nell’ultima retata, nel quartiere Chacao di Caracas, la capitale venezuelana, hanno provocato almeno due morti.

La polarizzazione della società venezuelana è ai massimi livelli. Ci sono tutti i presupposti per una guerra civile. L’opposizione democratica, guidata da Henrique Capriles, si rende conto che il Paese è sull’orlo del baratro e invita il presidente Maduro a “cambiare rotta”. Anche l’Onu, che fino a questa settimana era rimasta in silenzio, ha condannato l’eccesso di violenza delle forze dell’ordine venezuelane e ha invitato al dialogo. L’appello alla calma e soprattutto quello al dialogo sembrano destinati Maduro non sa più come fare per “distrarre” la popolazione. Prima di tutto con il classico “panem et circenses”: le festività di carnevale sono durate quasi una settimana più del calendario. Ma gli oppositori sono rimasti nelle piazze di Caracas, protetti dalle loro barricate. Allora ha celebrato in pompa magna l’anniversario della morte di Hugo Chavez, chiudendo uffici pubblici e scuole e proclamando 10 giorni di commemorazioni. Ma, dal 5 febbraio (giorno dell’anniversario) ad oggi, la protesta ha avviato un’escalation.

Allora, visto che il “panem et circenses” non basta, subentra il capro espiatorio, la ricerca di un nemico esterno. In questo caso è Panama: il vicino sudamericano ha chiesto all’Organizzazione degli Stati Americani di esaminare il caso Venezuela e ha decretato la chiusura del suo canale alle navi battenti bandiera venezuelana. Maduro ha allora individuato il nemico da additare nei panamensi, ha immediatamente rotto le relazioni con questo Stato vicino, “servo degli americani”. Un mese fa aveva fatto lo stesso con gli stessi Stati Uniti, buttando fuori i loro diplomatici.

“Quel che i media non vi dicono” è la classica frase ripetuta come un mantra dalla cosiddetta informazione alternativa e antagonista, che non fa altro che ripetere la propaganda di Maduro, usando le vecchie e stantie categorie marxiste (i piccolo borghesi contro il proletariato) per dare il suo punto di vista su quel che avviene in Venezuela. Per Maduro e per i suoi spontanei alleati del Web italiano, in Venezuela si viveva benissimo, nonostante si debba cercare in cinque o sei negozi prima di trovare un litro di latte. Se nel Paese sudamericano ci sono blackout continui, nonostante sia uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo, è solo perché è in atto un “sabotaggio” da parte degli Usa. E se un pezzo di popolo scende in piazza ed erige barricate, perché non ne può più di una politica economica che ha disintegrato la società, allora vuol dire che sono tutti “fascisti” ed è “evidente” che siano organizzati dagli Stati Uniti. Sono le stesse cose che i media russi e pro-russi dicono della ribellione in Ucraina: i rivoltosi sono tutti fascisti e soprattutto sono organizzati dagli Usa. Non a caso, i blog che difendono Maduro sono anche gli stessi che parteggiano per i carri armati di Putin, una galassia di pensatori rosso-bruni da tastiera che ormai sostiene tutte le repressioni, vedendo gli Usa dietro a qualunque disordine. I nuovi sovietici si sentono di nuovo accerchiati. Immaginano una cospirazione globale imperialista vedendo che le insurrezioni scoppiano a Caracas e Kiev, due culture e due capitali distantissime. Non viene loro in mente che entrambi i regimi post-comunisti, quello di Maduro in Venezuela e quello (ormai detronizzato) di Yanukovych in Ucraina, siano semplicemente degli affamatori di popoli, proprio a causa del loro sistema economico. E non viene loro in mente che la ribellione di piazza sia un’ultima spiaggia di popolazioni che vogliono sopravvivere, non un “complotto globale”.

Per lo meno c’è coerenza in tutto questo: il Cremlino, proprio questa settimana, il 3 marzo, ha reso esplicito tutto il suo appoggio al presidente Maduro e ha ritirato fuori la sua intenzione di installare proprie basi aeree e navali in Venezuela, ovviamente in funzione anti-americana. Ci mancava solo questo nella nuova Guerra Fredda.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:30