La Libia alla prova Conferenza di Roma

L’attenzione di questi giorni è interamente puntata sulla questione ucraina. È giusto che sia così. Tuttavia, altro in queste ore deve preoccuparci. Si tratta della conferenza internazionale sulla Libia, in programma domani a Roma presso il ministero degli Esteri.

Non è un appuntamento qualsiasi. La situazione lì è notevolmente peggiorata. La tanto enfatizzata fase di transizione alla democrazia si è rivelata un colossale fallimento. La disgregazione del Paese nordafricano è il prodotto evidente dell’incapacità delle forze del governo centrale di Tripoli di disarmare, sia materialmente che politicamente, le milizie che avevano combattuto nella guerra civile del 2011. Come metastasi di un cancro queste bande di criminali, motivate da interessi di potere ed economico-affaristici, nel corso di questi ultimi due anni si sono potenziate e sono cresciute di numero portando alle armi molti libici che, ai tempi della rivolta anti-al Qadhdhāfi, erano rimasti alla finestra a guardare. Il risultato immediato è che le tribù, padrone incontrastate del territorio dello Stato, intendono accordarsi in prima persona, senza mediazioni statali, con gli interlocutori esteri.

In particolare, la zona della Libia sudoccidentale del Fezzan che si apre alla fascia del Sahel è divenuta terra di conquista delle milizie islamiche integraliste e dei gruppi qaedisti. I terroristi, in combutta con le tribù locali, hanno fatto di quella porzione di deserto un comodo crocevia dei tanti affari illeciti da cui trarre risorsa per finanziare la causa della guerra dell’Islam contro l’Occidente. Dalle frontiere incustodite con il Niger e con il Ciad transitano regolarmente carichi di armi e droga. Non a caso il presidente Nigerino Mahamadou Issoufou, a seguito dell’attacco terroristico alle miniere di uranio di Arlit dello scorso 23 maggio, ha accusato esplicitamente le autorità libiche del disordine in cui è precipitata l’intera area, consentendo che il Fezzan si trasformasse in un’immensa base terroristica a cielo aperto.

In Cirenaica, nella parte Est del Paese, la situazione, se possibile, è ancora peggiore. Lì è in corso un regolamento di conti tra bande per il controllo delle provvigioni sulle forniture di petrolio e di gas. Al movente economico si aggiunge, amplificandone gli effetti, quello propriamente politico-religioso. L’obiettivo prediletto dei criminali islamici è la comunità dei cristiani di rito coopto presente nelle regioni del nord Africa. La contabilità dei morti è da brividi. Il 25 febbraio, su una spiaggia nei pressi di Bengasi sono stati giustiziati sette egiziani, accusati di essere cristiani di rito copto. Secondo fonti della Farnesina, “le modalità dell’uccisione fanno pensare a un’esecuzione, riconducibile all’attività dei gruppi di estremisti islamici in Cirenaica”.

L’altro giorno, un altro copto e quattro siriani cristiani sono stati uccisi a Bengasi. Uguale trattamento, lo scorso 2 marzo, è stato riservato a un cittadino francese trucidato in pieno giorno nella città capoluogo della Cirenaica. Il poveraccio era lì per seguire, da tecnico, i lavori di ristrutturazione dell’ospedale civile. La città portuale di Derna, nel nordest del Paese, è nelle mani sia della milizia Ansar al-Sharia, sia della Brigata dei Martiri di Abu Salim. I peggiori fanatici dànno riparo ad altri pericolosi criminali qaedisti del calibro di Abdulbasit Azouz e Abdel Hakim al-Hasadi. E questi fior di galantuomini stanno operando indisturbati a un tiro di schioppo dalle nostre coste. In proposito, sarebbe bello conoscere cosa ne pensano i nostri Servizi di sicurezza.

A Tripoli si discute sull’esito delle elezioni (un flop) della commissione per la redazione della Costituzione. Si sono presentati al voto solo 500mila elettori degli oltre 3.400mila aventi diritto. Le milizie di Zintan sono intervenute intimando al Congresso nazionale generale di sciogliersi. La confluenza sulle stesse posizioni della Milizia di Misurata con il partito dei Fratelli Musulmani minaccia da vicino la permanenza alla guida del Paese di quella élite conservatrice rappresentata dall’Alleanza delle Forze Nazionali e guidata, al governo, dal premier Ali Zeidan. In questo tragico scenario, dove nessun investitore internazionale sarebbe disposto a metterci un dollaro per la ricostruzione e la ripresa civile del Paese, si apre la conferenza di Roma.

Ora, mi domando, cosa ha in mente l’Italia per gestire una situazione che si rappresenta ai limiti della sostenibilità. Cosa ne sa di questa incandescente materia la neo giovane ministra Mogherini? Si pensa forse di fare come è stato fatto per la crisi ucraina, cioè andare dalla Merkel, o da chi altri, farsi spiegare su cosa dare appoggio e poi presentarsi davanti alle telecamere per dichiarare che l’Italia è in linea con i Paesi dell’Ue e con gli alleati del Patto Atlantico? E noi paghiamo un ministro per dire tali banalità? Se è solo questo che sa fare il nostro Governo, allora risparmiamoci la fatica.

In realtà è fondato il sospetto che Renzi abbia ereditato da certi suoi ascendenti democristiani la cattiva abitudine di ritenere la politica estera italiana affare delegabile ai più forti e motivati alleati. Questo spiegherebbe la scelta debole di un ministro degli Esteri totalmente inesperto. Così però Renzi, l’uomo del futuro, sta per farci compiere un balzo all’indietro di decenni. Deve rendersi conto, il neo premier, che gli scenari odierni sono totalmente diversi da quelli di sessant’anni or sono. Non c’è più il gigante buono americano che pensa a proteggerci e a pompare soldi per farci riprendere dalla guerra e dalla fame. Oggi, soprattutto nelle questioni riguardanti il quadrante Mediterraneo dello scacchiere internazionale, dobbiamo essere coscienti di dovercela sbrigare da soli. A maggior ragione dopo i disastri combinati da Obama e soci con la storia delle primavere arabe. Quindi, Renzi si chiarisca le idee e risponda alla domanda: la Libia è o non è affar nostro. Se la risposta è affermativa, come auguro che sia, allora ci spieghi cosa intende far dire alla sua inesperta ministra domani. Il programma della conferenza prevede che sia lei ad aprire i lavori. Ha la Mogherini un piano sul quale indirizzare il confronto? Oppure ci si limiterà a dare il benvenuto agli ospiti e a offrire pasticcini?

Il futuro della Libia, a prescindere da cosa pensino gli attuali attori del naufragato processo di transizione alla democrazia, è intrecciato con il futuro dell’Italia per innumerevoli motivi. È necessario, dunque, che il nostro Governo si prenda la responsabilità di condurre le danze, certo in sintonia con gli altri partner europei e d’Oltreoceano. Ma deve essere il nostro premier a dire agli altri come intende intervenire per disinnescare la “bomba termonucleare”del terrorismo islamico che si sta armando dall’altra parte del Canale di Sicilia e la cui deflagrazione, dio non voglia, ci travolgerà per primi. Non è sufficiente invocare la pace. Bisogna indicare pure come si la si vuole ottenere. Con quali mezzi, con quali risorse, con quale forza dispiegata sul campo. Piaccia a no dobbiamo rimettere piede in Libia per sistemare le cose. Facciamocene una ragione. E soprattutto, se la facciano i nostri alleati.

In questi ultimi giorni abbiamo scherzato sul fatto di quanto fosse simpatico, giovane e smart il nostro premier. Lo abbiamo un po’ coccolato perché noi italiani in fondo siamo fatti così, le novità ci fanno simpatia. Ma ora la ricreazione è finita. Non si può scherzare più e Renzi deve mettere in tavola le carte che ha. In caso contrario, sarebbe meglio che si facesse subito da parte, non appena approvata la nuova legge elettorale. È per il bene del Paese. Quello viene prima di tutto.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:45