In atto una seconda guerra di Crimea?

Il 26 febbraio, la crisi ucraina si è riaccesa in un altro epicentro: la Crimea. La penisola ucraina protesa nel Mar Nero, in Italia è nota per la guerra combattuta dal Piemonte, al fianco di una coalizione europea e turca contro i russi nel 1853-56. Fu la prima spedizione all’estero dei piemontesi, premessa per l’alleanza con la Francia di Napoleone III, un conflitto in cui anche “L’Opinione” (che già allora esisteva) aveva il suo corrispondente di guerra sul posto. Ora la Crimea rischia di diventare epicentro di un nuovo conflitto, molto meno “poetico” di quello di allora, famoso per battaglie epiche come Balaclava e l’assedio di Sebastopoli.

Il 26 febbraio il parlamento autonomo locale si voleva riunire, ieri pomeriggio, per discutere la crisi ucraina e votare, eventualmente, per la secessione. La Crimea, sede della Flotta del Mar Nero russa, è letteralmente un angolo di Russia incastonato nell’Ucraina, unito al resto del Paese dalla volontà di Chrushev, oltre che (sul piano geografico) solo da un piccolo istmo. Nel momento in cui a Kiev è stato rovesciato il presidente Yanukovych, che aveva un filo diretto con Mosca, la Crimea si è sentita nuovamente un corpo estraneo. Ed è così spiegabile la sua tendenza a volersi staccare, per riunificarsi alla Russia in un prossimo futuro.

La seduta parlamentare in Crimea non era ancora iniziata che un piccolo esercito di 7mila tatari (secondo alcune fonti sarebbero stati più di 30mila), disarmati ma determinati, ha riempito le piazze di Sinferopoli, la capitale regionale, e ha indotto il parlamento a desistere per ragioni di sicurezza. I tatari non hanno alcuna intenzione di tornare a far parte della Russia. Sono i discendenti diretti di quel Khanato di Crimea, residuo del Khanato dell’Orda D’Oro (a sua volta residuo dell’impero mongolico di Genghis Khan), annesso alla Russia nel 1783 e completamente russificato nei due secoli successivi. Non vogliono entrare di nuovo a far parte della Russia, non per odio a Caterina la Grande, che li annesse, ma per paura di un nuovo Stalin. Perché fu il dittatore sovietico che deportò in massa i tatari, così come fece con i baltici, con i ceceni e con tanti altri popoli ritenuti collettivamente nemici della rivoluzione.

La vendetta russa non si è fatta attendere. Uomini armati e in tuta mimetica hanno occupato ieri la sede del parlamento e vi hanno issato la bandiera russa. Tuttora, mentre questo articolo viene redatto, sulla sede dell’organo legislativo locale sventolano la bandiera russa accanto a quella regionale. Russi e tatari, come nelle peggiori situazioni di guerra etnica post-Urss, si sentono minacciati a vicenda e si preparano a combattere una guerriglia irregolare. Scene già viste in Abkhazia, Ossezia, Transnistria: ovunque i secessionisti filo-russi si siano sentiti isolati in una nazione straniera e abbiano percepito l’ostilità dei vicini, si sono armati e hanno reagito con la forza. In tutti i casi, la Russia ha, non solo incoraggiato, ma anche appoggiato i propri connazionali all’estero.

Anche questa volta, la Russia, lungi dallo starsene alla finestra, lancia chiari avvertimenti militari. Prima di tutto è stata avviata una grande esercitazione proprio nella regione del Mar Nero. Per le manovre e per ragioni di sicurezza, non sono state ritirate le truppe precedentemente dispiegate a Sochi per coprire i giochi olimpici. In compenso sono state mandate altre unità dalle riserve. Attualmente, nel distretto militare meridionale, sono presenti circa 150mila uomini, pronti a intervenire in caso di guerra. Gli aerei dell’aviazione russa stanno conducendo voli anche a ridosso dello spazio aereo ucraina. “Se muovete le truppe, reagiremo”, minaccia il nuovo presidente ucraino Oleksandr Turchynov. Ma reagire, con che cosa?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:45