Morti di serie A e… di serie B

La giornata politica è segnata dalle notizie drammatiche che arrivano da Kiev. L’Occidente è in allarme per ciò che sta accadendo in Ucraina. Le aperture dei giornali e dei telegiornali sono tutte per la strage di cento manifestanti, abbattuti in piazza Maidan mentre manifestavano contro il governo filorusso di Yanukovich. Dalle nostre parti tira aria di mobilitazione delle coscienze per l’inaccettabile prezzo di sangue pagato dalla popoplazione di quel Paese, che lo si voglia o no resta pur sempre Europa.

L’Unione Europea, che pure alla crisi ucraina non è del tutto estranea avendoci messo più di uno zampino per far precipitare gli eventi, è scesa in campo per fermare l’escalation di violenza che, alle porte di casa nostra, sta producendo una mattanza di grandi proporzioni. Cento morti lasciati sull’asfalto di Kiev. La fanfara del “politically correct” suona all’incirca così: non è ammissibile che tutto questo avvenga in Europa, per cui l’imperativo categorico è che cessi subito il focolaio insurrezionale acceso all’interno del perimetro continentale. Già! In Europa, perché altrove… i morti, come le merci dal bottegaio, non pesano alla stessa maniera.

In Nigeria c’è stata una strage di cristiani, e non solo. Sono morti in tanti. Più di cento. Pressappoco quanti ne sono morti a Kiev. Sono morti di sabato. La maggior parte, quelli che fanno il segno della Croce, aspettavano la domenica, il giorno dedicato al Signore, mentre gli altri, gli islamici, alla moschea c’erano già stati il giorno prima. Aspettavano di recarsi alla santa Messa, forse avrebbero cantato gli inni della gloria di Dio Padre. Avrebbero pregato sentendo riscattata la loro esistenza dalla fede in qualcosa di più grande. Avrebbero vestito gli abiti della festa, avrebbero messo le scarpe migliori e si sarebbero incamminati, tra le povere case dai tetti di lamiera, per le strade di terra battuta di un lontano villaggio immerso nei boschi che guardano il cuore di un’Africa che ha smarrito il suo cuore. Ma sono arrivati i carnefici. Anch’essi avevano un Dio da invocare e li hanno massacrati. Scannati e sgozzati come animali al macello. Li hanno braccati come prede. E li hanno fatti a pezzi. E la terra si è dipinta il volto di rosso. Il colore del sangue che, come un rigagnolo di campagna, ha trovato il suo corso nella strada che porta fuori, verso la foresta, nel buco nero da dove sono schizzati fuori gli assassini. Dopo il sangue, il fuoco. Hanno razziato e bruciato ciò che ancora poteva richiamare un pensiero di vita, di normalità, di presente.

Questa è la nuda cronaca di un giorno trascorso nel villaggio di Izghe, nella provincia-Stato del Borno. Per le vittime la fine di un’esistenza, forse preventivata, ma non immaginata nel modo in cui si è compiuta. Per i sopravvissuti la disperante fragilità di un futuro annientato dalla violenza e dalla ferocia del nemico. Per noi, cattolicissimi italiani, che quella sera eravamo presi in un altro titanico cimento: se sciegliere le canzoncine della Clerici o le lacrime della De Filippi di “C’è posta per te”, solo i mille caratteri di un lancio d’agenzia, una notizia di “esteri” passata nei telegiornali della domenica, un richiamo “in prima” in taglio basso per le maggiori testate, tutte prese com’erano dai gioiosi rovelli del corteggiamento a Renzi, nuovo oggetto di desiderio. Eppure in quelle scarne battute di cronaca sembra riscriversi un’altra pagina della “banalità del male”. Come se Hanna Arendt fosse tornata per l’occasione, sigaretta tra le labbra e mani sulla macchina per scrivere, a ricordarci che il male non ha memoria e neppure radici, ma cresce e si propaga tra coloro che sono privi di significato e che traggono dal solo elemento conduttore dell’odio la ragione dell’esistere. Chiediamoci allora del perché di tanto sangue in Africa.

Stefano Magni, in un articolo pubblicato lo scorso 11 febbraio su questo giornale, ci ha raccontato che la comunità religiosa più perseguitata al mondo, in questo nostro tempo storico, è quella cristiana. Lo rivela un’indagine del “Pew Research Center’s Forum on Religion and Public Life” di recentissima pubblicazione. Secondo il rapporto, la comunità cristiana, in tutte le sue declinazioni ecclesiali, nel periodo osservato 2006- 2012, ha subito persecuzioni in almeno 151 Paesi al mondo. Un bel record. Eppure questo triste primato non riesce a “bucare” i media. È in fondo una non-notizia, a riprova che come non tutti i gatti sono neri, anche di notte, così le uccisioni, le stragi, le violenze non sono tutte uguali, non hanno tutte la medesima dignità. In realtà, una bizzarra intepretazione del principio di tolleranza religiosa, riaffermato dagli occidentali, fa sì che l’altrui martirio sia un giusto prezzo da mettere in conto per glorificare, un giorno, l’avvento del Cristo salvatore. In attesa del fattore redimente per una civiltà deviata, l’umanità, nella visione cristiana, si appresterebbe a vivere la salvezza attraverso l’epopea dei suoi martiri. E per quanto a molti piaccia credere nella suggestione dell’insegnamento cristiano del “Voi non siete di questo regno”, trovando più consono acconciarsi a vivere l’eternità, il riscontro della realtà li costringe a confrontarsi con un’altra storia. Si tratta della narrazione di una solidissima tradizione di odio e di inimicizia che fa da contraltare all’amore in Cristo, operando da molla motivazionale per i comportamenti di masse di integralisti religiosi, che vanno ogni giorno di più ingrossandosi.

Tuttavia, è reale il sospetto che con il pretesto della guerra santa vengano veicolati interessi di ben altra natura. Vi sono, infatti, fattori in gioco prettamente economici, spesso legati al controllo delle fonti di produzione delle materie prima, in particolare di quelle afferenti al comparto dell’ energia, oltre a quelli politici, alle lotte di potere per la conquista delle leadership, nell’ambito di strutture comunitarie a dimensione variabile: dalle tribù dei villaggi agli apparati degli Stati. Ma più comunemente vengono veicolate ragioni di riscatto sociale, associate all’idea che l’introduzione della “Shari’a”, come unica legge, possa dare ai musulmani nigeriani quell’orizzonte di felicità, altrimenti negata da ogni altro tipo di regime o di sistema politico vigente o promesso per il futuro. Resta il fatto che i portatori di cristiana solidarietà siano armati esclusivamente della loro incrollabile fede e dello sconfinato amore per l’umanità, gli altri invece sostengono le loro ragioni con un tipo di armi molto diverso, e molto più pericoloso. Machete, kalashnikov, lanciarazzi, granate e tanto tritolo. Messa così, la partita sarà sempre impari. Come impari è stato il contatto, lo scorso sabato, tra un’ inerme popolazione cristiana e musulmana di un villaggio del Nord-Est della Nigeria e una banda di fanatici assassini arruolati nella milizia del terrorismo islamico Boko Haram che opera nelle zone di confine con il Camerun.

La Nigeria è terra ricca di risorse naturali, però la stragande maggioranza degli abitanti versa in condizioni di assoluta povertà, secondo fonti giornalistiche il 60% della popolazione sarebbe costretta a vivere con un solo dollaro al giorno. Tanta ingiustificata disparità sociale, determinata dall’inefficacia del meccanismo redistributivo della ricchezza prodotta, dal forte livello di corruzione presente negli apparati politici locali e dal fatto che il cosiddetto “ascensore sociale” sia perennemente bloccato, ha attratto l’interesse di quelle forze del terrorismo di marca islamica le quali vorrebbero fare dell’Africa la sola realtà integralmente alternativa alle logiche neocolonialiste, di marca occidentale, che fanno leva sullo sfruttamento sistematico e indiscriminato del territorio. Al banco degli accusati siedono le grandi imprese multinazionali che hanno accumulato immense fortune grazie all’ombrello protettivo dei sistemi socio- economici nonché dei paradigmi culturali veicolati attraverso il ruolo egemonico, esercitato con pugno di ferro proprio in Africa più che altrove, dalle nazioni dell’emisfero settentrionale del pianeta.

Dal 2002, Boko Haram opera sul territorio nigeriano come una sorta di network del terrorismo islamista che ha raccolto nel tempo le bande di predoni e di assassini le quali agivano separamente senza una precisa strategia. Boko Haram in lingua hausa significa “l’educazione occidentale è peccato”, che è già di suo tutto un programma. Fondato dall’imam Mohammed Yusuf, morto durante la detenzione nelle carceri nigeriane, il gruppo terroristico, dopo un lungo periodo di operatività sotto traccia, da almeno tre anni ha intensificato le sue azioni violente. Quasi tutte hanno riguardato l’assalto a chiese e comunità cristiane insediate principalmente nelle aree del nord-est del Paese, in particolare nello Stato di Plateau. La strategia criminale di Boko Haram mira, come primo target, all’allontanamento delle altre confessioni religiose oggi presenti nella società nigeriana, mediante l’annientamento fisico di tutti coloro che se ne dichiarano adepti. Giacché la tradizione religiosa, in particolare quella cristiana, si è radicata nel tempo all’interno delle microcomunità del Paese, divenendone un fattore identitario, la pratica di sterminio messa in campo dagli integralisti islamici assume le dimensioni di un’autentica pulizia etnica.

È, quindi, ipotizzabile che l’elezione alla presidenza federale di un cristiano, Goodluck Jonathan, abbia spinto le bande di Boko Haram ad alzare il livello di scontro per tentare di chiudere in via definitiva la partita con l’eliminazione radicale dell’elemento cristiano dal contesto territoriale nigeriano. È del tutto naturale che questi terroristi agiscano per impedire a tutti i costi che il dialogo interreligioso avviato da alcuni anni tra tutte le componenti della comunità cristiana presenti in Nigeria, oltre quella cattolico-romana, e l’islam moderato abbia successo, perché ciò comporterebbe la sopravvivenza di quel fattore identitario che, invece, si vuole estirpare alla radice. Dal canto loro, le potenze occidentali non avrebbero interesse che la situazione proprio in Nigeria possa sfuggire di mano, anche perché sarebbe possibile una successiva propagazione del fenomeno terroristico al vicino Camerun il quale, a sua volta, è in crisi dal punto di vista della stabilità politica, quindi particolarmente esposto all’azione eversiva del terrorismo integralista. Il fatto è che non si può sperare che questi governi di recente conio, non ancora consolidatisi nel padroneggiare le meccaniche di uno Stato democratico, possano farcela da soli a fronteggiare l’offensiva del terrorismo integralista. Hanno bisogno di essere aiutati.

È giunto il momento che le nazioni dell’Occidente sviluppato la smettano una buona volta di considerare quei territori alla stregua di “Discount” da cui attingere, a prezzi stracciati, le risorse necessarie per mandare avanti i propri apparati produttivi, senza minimamente preoccuparsi del benessere e delle prospettive di riscatto delle popolazioni locali. L’intero Occidente ha già sulla coscienza la gigantesca macchia del genocidio in Ruanda. In quell’occasione, per cento lunghi giorni, nell’inferno del 1994, tutti rimasero a guardare indifferenti le stragi di civili condotte su basi razziali, fin quando una missione francese, sotto l’egida dell’Onu, non intervenne per porvi fine. Dovettero essere trucidate più di 800mila persone, prevalentemente di etnia Tutsi prima che la nazione della “Grandeur”, che in quell’area fa il bello e il cattivo tempo, prendesse posizione. Oggi tutti gli indicatori di sicurezza dicono che stia montando una marea violenta la quale potrebbe portare ad esiti non dissimili da quelli verificatisi in Ruanda, venti anni orsono. Prima che ciò accada le cancellerie europee e d’oltreoceano farebbero bene a considerare la necessità di un’immediato impiego della forza di pace per fermare la deriva terroristica.

Di recente si è intervenuti in Mali, dove gli interessi francesi sono particolarmente radicati, sbarrando di fatto la strada all’escalation dei gruppi terroristici stimolati dalla situazione di instabilità complessiva dell’area, intervenuta a seguito della sciagurata invenzione della ”primavera araba”. Nei progetti degli integralisti islamici c’era l’idea di costituire nella parte centro-occidentale dell’Africa un “nuovo Afghanistan” aperto alla Jihād. Nel caso del Mali l’Ecowas, la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale ha fatto la sua parte, impegnandosi direttamente nella missione Onu. Dovrebbe accadere lo stesso per la Nigeria, prima che sia troppo tardi. E non sarebbe male se anche le multinazionali che lì operano con grande soddisfazione per i propri profitti decidessero di impegnare un po’ di risorse economiche da destinare al miglioramento della qualità della vita delle comunità locali.

Non è Che Guevara, si chiama “Csr”, Corporate Social Responsibily, Responsabilita Sociale delle Imprese, e non ha ammazzato nessuno. A merito delle proponenti, va detto che il nostro Parlamento, nel luglio del 2012, è stato impegnato da una mozione, sulla questione nigeriana, presentata dalle deputate Eugenia Roccella, Fiamma Nirenstein e Sbai Souad, prime firmatarie (bisogna riconoscerlo, anche in politica le donne sono sempre un passo avanti). Il documento, avendo in premessa l’insostenibilità delle stragi di fedeli cristiani in terra di Nigeria, chiedeva al Governo di attivarsi nei confronti dell’Onu, “affinché forze di interposizione siano inviate in Nigeria, in coordinamento con il Governo nigeriano, a protezione delle Chiese cristiane e dei fedeli”. Quella sensata iniziativa è finita nel vuoto pneumatico di un governo asfittico: quello Monti. Nondimeno, l’iniziativa andrebbe ripresa con urgenza perché tempo per salvare vite innocenti in quella parte del mondo che ha subito i nefasti effetti del contatto con la nostra non sempre generosa civiltà, non è avanzato.

Come ha dichiarato alla stampa Ignatius Kaigama, arcivescovo della città di Jos, capitale dello Stato di Plateau, nel cuore della Nigeria, “i terroristi… sono impazziti, hanno smarrito ogni logica. Però non riusciamo a fermarli e mi chiedo: come è possibile che questa violenza non abbia fine?”. Ecco una bella domanda su cui potremmo applicarci nel corso di questo piovoso week-end: non riusciamo, o non vogliamo fermarli?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:48