L’Ucraina russofona che non vuole l’Ue

Bacino carbonifero del Donbass, tra orgoglio russofono e paure europee: viaggio tra gli ucraini che vogliono stare con Mosca. E che per farlo, sono pronti anche alla secessione. Le case sono tutte uguali, ingrigite da una patina di fuliggine proveniente dalle vicine miniere di carbone e dal cielo plumbeo. Benvenuti nel bacino carbonifero del Donbass, una delle regioni più inquinate d’Ucraina: da queste parti l’aspettativa di vita è di 57 anni (contro un media nazionale di 66), perchè la morte arriva a causa delle malattie ai polmoni o per incidenti sul luogo di lavoro, dovuti all’assenza di forme di sicurezza in quelle fabbriche siderurgiche e in quelle miniere, una volta orgoglio dell’Urss.

Qui, nei i villaggi carboniferi russofoni gli echi della protesta di piazza Maidan a Kiev arrivano flebili e non sortiscono risultato alcuno, se non indifferenza e talvolta astio: mai, in oltre vent’anni di indipendenza, è stata così enorme la distanza tra le regioni occidentali e quelle centro- sudorientali dell’Ucraina, tanto da mettere a rischio l’unità stessa del Paese. Da queste parti ormai non è un mistero che se il presidente Yanukovic, che qui ha il suo feudo elettorale, dovesse capitolare e cedere il potere agli “europeisti”, la secessione delle regioni russofone da Kiev sarebbe inevitabile: i movimenti pan-russi di Sebastopoli, di Lushansk, di Donetsk (dove la lingua russa è parlata da oltre il 90 per cento della popolazione) hanno già pronta la dichiarazione di autodeterminazione delle oblast’ centrali e sudorientali ucraine, che confluirebbero nella federazione della Piccola Russia, o Malorossija.

A queste latitudini gli “europeisti” hanno poca voce in capitolo. Sono una minoranza sparuta, e temono per la loro sicurezza quando tengono i loro discorsi sulla democrazia e la libertà. I russofoni sono in maggioranza schiacciante, e l’Europa non la vogliono. Sottolineano come mentre loro stiano a spaccarsi la schiena nelle miniere, gli “europeisti” rimangano a bivaccare per la distruzione dell’Ucraina. “Dovrebbero sgombrare con la forza la piazza Maidan e obbligare quei perditempo a lavorare”, è la frase più ricorrente che capita di sentire in giro. Il lavoro, una merce rara che l’ingresso di Kiev nell’Ue potrebbe rendere ancor più introvabile: gli abitanti di questi villaggi sanno bene che a beneficiare dell’area di libero scambio sarebbero solo le regioni occidentali, quelle al confine con la Polonia, mentre nell’Est del Paese, quello dei bacini carboniferi e degli impianti siderurgici, l’assenza di un apparato produttivo minimamente competitivo significherebbe scivolare ancor di più lungo il crinale della miseria.

Yanukovic, che da queste parti ci è nato, a novembre aveva vincolato il suo sì all’Ue ad un maxiprestito da 167 miliardi di euro per ammodernare gli obsoleti complessi industriali ucraini di epoca sovietica, di cui l’Ucraina sudorientale è piena: ma l’enorme cifra, pari all’importo dei fondi strutturali concessi alla Polonia dopo il suo ingresso nell’Unione, è stata negata da Bruxelles. Tuttavia, nelle regioni orientali questo diniego sembra non aver scontentato nessuno, anzi. Forse perché da queste parti la gente i soldi Ue non li vuole, anche se farebbero comodo proprio ai tanti minatori che vivono in casupole grigie e affumicate, la cui unica nota di colore è data dalle bandiere arancioni dello Shakhtar Donetsk esposte alle finestre. Qui la parola ricchezza sembra riconducibile solo a questa squadra calcistica divenuta negli ultimi anni una potenza del football europeo, grazie agli investimenti milionari del presidente Rinat Akhmetov.

Figlio di un minatore e ora influente oligarca a capo di una potente holding operante nel settore minerario e metallurgico, Akhmetov non lesina quattrini per i suoi “minatori” in casacca arancio-nera (shakhtar, o shakhtjor come dicono da queste parti, significa appunto “minatore”), a cui ha messo a disposizione uno stadio avveniristico, la “Donbass Arena”, e fatto costruire il centro sportivo di Kirsha, una delle strutture di allenamento più all’avanguardia a livello continentale. Anche qui il calcio è fenomeno sociale, che dà consenso e identità territoriale: il primo è tutto per Akhmetov, eletto parlamentare nelle fila del partito di Yanukovic, la seconda è quella dei ucraini russofoni che riconoscono alla sua squadra di calcio un collante identitario. Per questo non è forse un caso che tra le lingue del sito ufficiale dello Shakhtar il russo venga prima dell’ucraino.

Ma se gli investimenti milionari di Akhmetov hanno permesso al Donbass del calcio di diventare luogo di trionfi dei suoi “minatori” in calzoncini, nel Donbass del carbone gli equipaggiamenti obsoleti e i bassi standard di sicurezza troppo spesso hanno trasformato le miniere in trappole mortali: come accaduto a dicembre scorso a Svjato-Pokrovska, vicino a Donetsk, quando un’esplosione ha ucciso quattro minatori, o nel 2011 a Lushansk, dove ne morirono diciannove, o nel 2008 a Enakievo, persero la vita tredici operai, o l’anno prima ancora a Donetsk, nella miniera di Zasjadko, dove trovarono la morte ben 101 minatori. Un bollettino di guerra che colloca le miniere Ucraine, e soprattutto quelle della oblast’ di Donetsk, tra le più pericolose al mondo. Quelle stesse miniere che pesano per più del 25% sulle entrate di bilancio della nazione, ma che non possono sopravvivere senza le forniture energetiche russe e l’export verso Mosca.

Ed il timore, da queste parti, è che l’area di libero scambio con l’Ue porti automaticamente ad una rottura commerciale con la Russia, il che significherebbe un colpo mortale per queste comunità che vivono intorno alle deboli strutture produttive di questa regione, già fiaccate dalla recessione economica e dalla mancanza di lavoro. Se da un lato la stipula dell’accordo con Bruxelles potrebbe placare la rivolta a Kiev, dall’altro potrebbe invece far saltare il tappo della rabbia nelle aree orientali dell’Ucraina, dove, ammoniscono gli esponenti locali del partito di Yanukovic, “l’impatto sulla società, esposta al rischio di ulteriore povertà e disoccupazione, sarebbe esplosivo”. Una società che sembra ancora quella sovietica, dove il nemico viene sempre da occidente.

L’ipotesi che Kiev entri a far parte della nascente Unione doganale con Russia, Bielorussia e Kazakhstan piace molto qui nell’Est: “Sono sempre stati nostri fratelli, perché li dovremmo lasciare?”, si chiedono in tanti, consapevoli di esser parte di un ensemble geopolitico non ben definito che, ad ogni modo, è più vicino alla Russia che all’Europa comunitaria. Si tratta di coloro rimasti scottati dall’Ucraina a due velocità figlia della Rivoluzione Arancione del 2004, targata Yuschenko-Timoshenko. La modernizzazione e l’occidentalizzazione, promessi dieci anni fa, nelle regioni orientali hanno comportato solo un peggioramento delle condizioni di vita, con chiusura di fabbriche e miniere, e conseguente spopolamento dei villaggi circostanti. “Ma con la vittoria presidenziale di Yanukovic nel 2010 le cose hanno cominciato lentamente a migliorare”, ripetono gli abitanti del Donbass. Che adesso ascoltano preoccupati le notizie da Kiev. La loro paura di perdere quel poco che hanno è forte quasi quanto la voglia d’Europa urlata da piazza Maidan.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:46