Gli Italoamericani, l’intervista a Sciame

Navigando sul web dall’Italia alla ricerca di tutto ciò che è italiano negli States, frequentando il maggior numero di riunioni e appuntamenti quando si è lì, parlando e chiacchierando con chiunque abbia qualcosa di interessante da dire nella comunità italiana in America, si finisce per verificare che alcuni nomi ricorrono molto spesso. Sono pochi nomi di persone, che - è facile da capire - hanno dedicato tutta la loro vita al servizio degli italoamericani: dando il loro contributo in molti luoghi, modi e tempi; partecipando ad assemblee, consigli di amministrazione, incontri istituzionali; guidando la comunità nel ricordare, difendere e aiutare l'Italia e gli italiani negli Stati Uniti. Joseph Sciame è definitivamente uno di questi pochi nomi. Da anni rappresenta con credibilità e passione la comunità italoamericana a New York e non solo. Siamo lieti di incontrarlo e di presentarlo ai pochi che ancora non lo conoscono.

Presidente Sciame, lei è a capo della Conferenza dei Presidenti delle principali organizzazioni italoamericane. Ce ne descriva le attività?

Sì, presiedo la Conferenza dei Presidenti delle principali organizzazioni italoamericane da tre anni, e ne sono orgoglioso. Vorrei si riuscisse ad avere ulteriori finanziamenti al fine di aprire un ufficio, del personale, un sito web interattivo e molto altro ancora. La conferenza ha quasi 40 anni, essendo stata istituita nel 1976, e negli anni abbiamo dato risposta a qualsiasi varietà di preoccupazioni e argomenti. Guidati da individui che hanno ereditato le sfide di quella che io personalmente considero la "rinascita" della comunità italoamericana negli anni Sessanta, la Conferenza ha, tra le tante cose, portato avanti e contribuito a vincere la battaglia alle Nazioni Unite per evitare la riforma del Consiglio di Sicurezza che avrebbe lasciato fuori l’Italia, partecipando alla raccolta delle 100mila firme che furono consegnate alla Casa Bianca; ma mi piace ricordare anche gli anni di attività congiunta con il compianto Joseph Grano per ottenere la medaglia d'oro postuma del Congresso per Constantino Brumidi; ed il costante sforzo di promozione e di raccolta fondi per il programma Advanced Placement di insegnamento della lingua italiana negli Usa, solo per citarne alcuni.

Lei è stato Presidente nazionale dell’Osia, Order Sons of Italy in America, dal 2003 al 2005: ha lavorato a lungo in questa associazione fino al vertice massimo. Sia per la sua storia che per la diffusione in tutti gli Stati Uniti delle sue numerose logge, l’Osia è un po’ diversa da Niaf e Unico, le altre due grandi associazioni che rappresentano gli italoamericani. Cosa ci può dire su questo?

Ero e sono sempre molto orgoglioso della mia Presidenza Nazionale dal 2003 al 2005, che per me fu il culmine di 35 anni di appartenenza a questa associazione. L’Osia è un’organizzazione basata sulla società civile e sul concetto di comunità. Si tratta di una generosa organizzazione di beneficenza che aiuta coloro che soffrono per l’anemia di Cooley, il morbo di Alzheimer, i veterani di guerra con danni permanenti, solo per citare alcune delle nostre iniziative. Dall’inizio ufficiale della Sons of Italy Foundation nel 1959 abbiamo raccolto più di 100 milioni dollari in beneficenza, ma l’Osia fu fondata nel 1905, anche se siamo stati fondati nel 1905, e abbiamo donato una enorme quantità di dollari nei primi decenni dello scorso secolo all’Italia, ad esempio in occasione di terremoti e altre catastrofi naturali. La principale differenza con gli altri è che l’Osia funziona come il sistema delle confraternite.

Lei è nato a Brooklyn, patria di molti americani di origine italiana. Come descriverebbe l’infanzia di un bambino italoamericano a Brooklyn, a quei tempi?

Sono cresciuto nella piena consapevolezza di essere italoamericano, sin dai miei primi giorni, poiché provengo da una famiglia con ben quattro nonni siciliani, ognuno dei quali ha messo l’America al primo posto, una volta emigrato. Io e la mia famiglia abbiamo conosciuto poco il problema delle discriminazioni, perché nel secondo dopoguerra le cose erano già diverse. Una volta entrati negli anni Sessanta, la vita cambiò e a tutti noi sembrò di essere divenuti più consapevoli della nostra italianità. Siccome ero in un quartiere prevalentemente ebraico, imparai a capire le altre persone e a rispettarle: e ora, più tardi nella vita, ho finito per diventare anche il Presidente del Kupferberg Holocaust Center presso il Queensborough Community College, nella Cuny (City University of New York), primo non ebreo e primo italoamericano ad avere questo onore.

Tra le sue attività, una delle più importanti è la vicepresidenza presso la St. John’s University nel Queens ... 

Presto il mio servizio presso la St. John University dal 1962, studiando di notte mi laureai nel 1971. Sono vicepresidente con le deleghe per due grandi aree come la gestione delle iscrizioni e ora anche le relazioni comunitarie, e in questo ruolo molte volte mi è capitato e mi capita di usare la mia italianità. Negli ultimi 20 anni sono stato componente dell’Advisory Board del centro culturale italiano della nostra università: da 5 anni ne sono anche il presidente. Grazie al mio ruolo nell’Osia e ad una più ampia serie di contatti, sono stato in grado di coordinare eventi legati al programma che ogni ottobre celebra per tutto il mese il patrimonio culturale italiano nei nostri campus nel Queens, a Staten Island e a Manhattan. 

È chiaro dal suo impressionante curriculum che la religione è stata ed è una parte molto importante della sua vita e della sua carriera. In realtà è stata fondamentale per l'intera comunità italoamericana nel corso dei decenni. Qual è il suo pensiero su questo?

La religione è molto, molto importante per me, perché era immerso in essa fin dalla mia giovinezza, vivendo dall'altra parte della strada della Parrocchia di San Malachia a East New York, nel Brooklyn. Mia madre era devota come lo erano i suoi genitori. E mio padre è diventato proprio come lei. Ho frequentato tutte le scuole cattoliche dalle elementari fino al college e così la mia fede, credo, è forte. Nelle mie letture io sono un vaticanista e difendo la nostra fede. Oltre a ciò, sono stato onorato dalla Chiesa con il conferimento pontificio di Cavaliere di Gran Croce del Santo Sepolcro, un onore al quale tengo moltissimo. In effetti, uno dei momenti importanti della mia vita è stato quando nel 2004, quando Osia celebrava il suo novantanovesimo/centesimo anno, andai a Roma con 100 membri dell’associazione e Beato Giovanni Paolo II, che sarà presto santo, ci benedisse dicendomi mentre mi teneva la mano: “Dio vi benedica e Dio benedica i Sons of Italy!”. E quindi sì, la religione è importante per me e devo dire che lo è anche per molti intorno a me e nella mia vasta cerchia di familiari e amici.

Lei è il destinatario di numerosi riconoscimenti e di ordini di merito aggiudicati dalle istituzioni italiane: questi premi sono qualcosa che gli italoamericani percepiscono e ricevono con grande orgoglio. C’è a volte una netta differenza tra italoamericani e italiani per quanto riguarda l’appartenere al nostro Paese e l’essere riconosciuti come cittadini italiani, per non parlare del fatto di vedersi attribuire questi riconoscimenti. Noi pensiamo che gli italiani che vivono in Italia dovrebbero a volte ammirare e imparare dagli italoamericani come e perché sentirsi orgogliosi del nostro comune Paese. Cosa ne pensa?

Non sono sicuro esattamente su come rispondere a questa domanda, perché tutto quello che so da 8-9 volte in cui sono stato in Italia è che ho incontrato persone che sono orgogliose del loro Paese, indipendentemente dai cambiamenti nel governo e dalle sfide che pure esistono oggi. Allo stesso tempo, ho avuto la fortuna di aver incontrato alcune persone fantastiche e il mio coinvolgimento nella comunità italoamericana mi ha portato ad essere segnalato prima come Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica d’Italia e poi elevato a Ufficiale. Che grande onore! Questi riconoscimenti sono per me un riflesso di chi sono e da dove vengo: l’Italia, un luogo ricco di patrimonio culturale. E quei premi mi hanno portato ad altre decorazioni con l’Ordine di Merito e dell’Ordine dei SS Maurizio e Lazzaro dell'antica Casa Savoia e l'anno scorso con l'Ordine di San Michele dell’Ala dal Duca di Braganza. Questi onori rendono orgoglioso me e la mia famiglia ma io continuo a rimanere umile e a vivere secondo il motto scritto sulla facciata del nostro edificio amministrativo presso la St. John’s University che afferma così bene: “ministrare non ministrari”... per servire e non per essere servito, per dare alla comunità, essere giusti e assicurare la giustizia, cercare la pace e portare la pace. La ringrazio per questa opportunità di condividere questi pochi pensieri mentre siamo in cammino insieme per raggiungere i nostri nobili obiettivi: nessuno lo dice meglio del motto dell’Order Sons of Italy in America: Libertà, Uguaglianza e Fraternità.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:44