Diplomazia in Siria, ma a cosa serve?

La prima tappa per il processo di pace in Siria potrebbe essere costituita dal prossimo round negoziale a Ginevra, detto “Ginevra2” (dopo il fallimento del primo round di colloqui nella città elvetica). Ma quanti andranno a Ginevra e quanto saranno rappresentativi del loro popolo? Una guerra civile finisce quando i leader di entrambe le parti riescono a convincersi che occorra un cessate il fuoco e hanno autorità sufficiente sui loro uomini da indurli a gettare le armi. Dalla parte dei governativi c’è un’autorità indiscutibile e indiscussa: Bashar al Assad.

Dalla parte dei ribelli non c’è alcun leader che possa parlare a nome delle fazioni di insorti. Non solo non ce n’è uno universalmente riconosciuto, ma neppure uno che rappresenti almeno la maggioranza di esse. Proprio i combattimenti in corso nella Siria settentrionale e orientale dimostrano come anche la stessa fazione islamista sia ormai irrimediabilmente spaccata al suo interno. I miliziani della locale Al Qaeda (Isil: esercito islamico dell’Iraq e del Levante) sono stati scacciati con la forza dalle province di Aleppo e di Idlib, mentre hanno contrattaccato a Raqqa, espugnando la città.

E non stanno certo combattendo contro i governativi di Assad, né contro altri insorti laici: combattono contro altre milizie islamiste. Islamici contro altri islamici, islamici contro laici, islamici e laici contro governativi. Se questa è la situazione della Siria attuale, da dove si potrebbe partire per fare un accordo di pace? I colloqui di Ginevra2 adottano lo stesso schema di sempre. Mirano a un governo di transizione che sappia riportare la calma nel Paese, come se si trattasse ancora di uno scontro politico. Mentre la guerra, ormai, è scivolata nella categoria dei conflitti di religione, senza confini e senza governi che tengano. Assad si era finora opposto ad ogni piano di pace, perché il governo di transizione lo avrebbe escluso.

I negoziatori, oggi, non includono questa clausola, per lo meno non ne fanno un dogma. Sono disposti ad accettare anche una presenza di Assad anche nel futuro governo provvisorio. Sarà difficile che questa clausola venga accettata dai rappresentanti dell’opposizione, quei pochi laici che ancora contano, riuniti sotto la sigla del Consiglio Nazionale Siriano. L’accettazione di Assad, alawita e filo-iraniano, nel futuro regime siriano sarà anche dura da digerire per i Paesi sunniti che fanno parte del gruppo di contatto: Qatar (uno dei principali finanziatori dei ribelli), Turchia (base logistica e finanziatrice dell’insurrezione) e Kuwait. Del gruppo di negoziatori fa parte anche l’Iraq, che ormai è pienamente coinvolto dalla guerra siriana, esondata sul suo territorio.

Il ruolo occidentale appare ormai completamente sbiadito. Il dialogo con Assad e fra lui e l’opposizione è stato fortemente voluto da Vladimir Putin. Questo è il suo momento, la sua occasione di dimostrare al mondo di saper riportare la pace nel Medio Oriente. Le cancellerie di Londra, Parigi e Washington, in questo momento si accodano e pare stiano cambiando decisamente fronte rispetto al passato. Stando a quanto ha dichiarato ieri il ministero degli Esteri di Damasco, agenzie di intelligence occidentali, non ben precisate, avrebbero offerto la loro collaborazione a Bashar al Assad per combattere Al Qaeda.

Fosse vero, sarebbe una bella giravolta a 180 gradi rispetto al quasi-intervento militare di settembre, contro Assad e al fianco dei ribelli (Al Qaeda inclusa). Il governo di Londra nega fermamente che sia avvenuto qualunque contatto fra i suoi 007 e il regime di Damasco. Sempre che una smentita non sia una notizia data due volte. Per ora, possibili giravolte a parte, restano chiusi i rubinetti occidentali per i ribelli islamici nel Nord della Siria, privati dei loro aiuti dopo numerosi incidenti militari al confine con la Turchia.

In compenso il portafogli si riapre per tentare di far fronte all’emergenza umanitaria, attualmente la peggiore del mondo, con circa 100mila morti e 2 milioni e mezzo di rifugiati e 6 milioni e mezzo di profughi interni. L’Onu ha lanciato un appello per la raccolta di 6 miliardi e mezzo di dollari, a cui l’Ue contribuirà con 753 milioni e gli Stati Uniti con 380 milioni. Tanti soldi, che però in Siria suonano come un cerotto su una voragine.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:49