Partenariato europeo, una partita da giocare

L’anno appena cominciato si caratterizza per un evento, tra i tanti, destinato a segnare il futuro della comunità nazionale italiana: l’elezione per il rinnovo del Parlamento Europeo. Detta così la cosa non parrebbe suscitare emozioni particolarmente forti se non fosse per il fatto che la marea montante di demonizzazione e di ostilità verso le politiche economiche di rigore poste in essere dalla Ue, rischia di provocare la rottura degli argini della contestazione proprio in occasione del voto. In molti Paesi, in particolare in quelli della zona Euro, le forze politiche cosiddette euroscettiche puntano a lanciare un chiaro segnale di inversione di tendenza portando nel nuovo Parlamento rappresentanze del dissenso e della lotta all’Europa delle banche e delle alte burocrazie.

Ma per le ragioni della protesta la scadenza elettorale potrebbe rivelarsi una “vittoria di Pirro”, cioè qualcosa di sostanzialmente inutile rispetto a quanto, nel frattempo, si è già fatto e stabilito sulla strada di un’integrazione assai anomala giacché da monetaria è divenuta bancaria, non essendo economica e neppure è stata politica, e chissà se mai lo sarà. Nel mentre gli osservatori si accapigliano sul futuro dell’euro nelle ovattate stanze di Bruxelles, con il più assoluto silenzio mediatico. Durante l’ultimo Consiglio europeo tenutosi lo scorso 19/20 dicembre, tra le altre decisioni, è stato approvato il cosiddetto “Partenariato per la crescita, l’occupazione e la competitività”. Si tratta, in effetti, di introdurre nella legislazione comunitaria uno strumento regolativo pensato come ulteriore vincolo all’autonomia delle politiche di bilancio dei singoli Stati.

In concreto, nelle intenzioni dei suoi ideatori vi è l’obiettivo di assicurare un più corretto funzionamento dell’Unione Economica e Monetaria. Per conseguire tale risultato si tratterebbe di implementare una leva utile a ridurre gli squilibri derivanti all’intero sistema economico europeo dallo sviluppo asimmetrico della crescita produttiva all’interno della Ue. In particolare si tratterebbe di ridurre il divario tra le economie dell’aree sud-orientali e meridionali del continente che sono visibilmente in affanno, sebbene con diversa intensità, rispetto agli andamenti produttivi dei Paesi della zona del Nord Europa, guidati dalla locomotiva tedesca.

Secondo le conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo, l’idea-guida del nuovo meccanismo di sostegno dovrebbe ruotare intorno all’idea-forte della stipula di contratti tra i singoli Paesi membri e la Commissione mediante i quali giungere a dare sostanza ai partenariati. Sebbene faccia un certo effetto immaginare che un rapporto tra Stati sovrani e Comunità ad essi sovraordinata possa essere regolato da un tipico istituto di diritto privato, qual è il contratto, non deve stupire l’intenzione di vincolare l’erogazione di fondi a sostegno dello sviluppo alla realizzazione di un sinallagma in forza del quale lo Stato contraente s’impegna a produrre le necessarie politiche di crescita ricevendo a corrispettivo un controvalore economico.

D’altro canto il progetto pare ispirarsi al già collaudato sistema della concertazione territoriale, dove pure sono presenti strumenti, quali ad esempio i contratti d’area, che tendono a riprodurre la medesima logica privatistica dello scambio di “prodotto” contro risorsa finanziaria. In realtà l’obiettivo che sta alla base del progetto mira a canalizzare con maggiore rigore le iniziative che i singoli Stati assumono in favore della crescita verso standard operativi in linea con la filosofia di sviluppo e di coesione sociale immaginata e attuata a Bruxelles.

Tuttavia, la mancanza di fiducia nelle capacità di alcuni Stati membri nel riuscire a costruire da soli un processo virtuoso che dia risultati effettivi in termini di calo della disoccupazione, aumento della competitività del sistema produttivo e crescita del benessere e della ricchezza complessiva delle comunità di riferimento, ha spinto i burocrati di Bruxelles ad allestire un moderno e funzionale “cavallo di Troia” con il quale infilarsi nel campo degli interlocutori e, una volta dentro, agire dall’interno per cambiare a proprio giudizio la situazione. Già! Perché l’altra faccia della medaglia di questo strumento è rappresentata dalla possibilità concessa - per contratto - alle autorità comunitarie di avere poteri d’intervento più stringenti rispetto al passato.

Se il principio è quello di un indubbio coinvolgimento (ownership) delle istituzioni nazionali nella fase di concertazione delle iniziative da implementare attraverso lo strumento del partenariato, il passo successivo è in direzione della opportunità di dotare di cogenza gli impegni assunti, di modo che l’azione combinata del clientelismo politico e del potere burocratico locale non possa compromettere gli esiti dell’intervento. Su questo punto il Consiglio è stato chiaro: “Un eventuale accordo di sostegno finanziario associato agli accordi contrattuali reciprocamente concertati avrà carattere giuridicamente vincolante”. Come a dire: “Scordatevi di gestire i fondi comunitari di testa vostra e con i vostri tempi.

Lo fate seguendo le nostre direttive, altrimenti interveniamo noi direttamente surrogandovi nella conduzione operativa del progetto”. Per essere chiari: l’idea che un governo, qualunque ne sia la colorazione politica, possa risolvere, tanto per fare un esempio di pura fantasia, il problema delle multe irrogate dalla Ue per le violazioni in materia di regolazione delle cosiddette “quote latte” con i fondi Fas destinati al sostegno delle aree depresse e sottosviluppate del Mezzogiorno, è un’alchimia di finanza pubblica che non sarà tollerata. È di tutta evidenza, dunque, che la tessera incardinata lo scorso dicembre nel mosaico dell’unificazione europea è tra quelle strategicamente più importanti giacché si propone di agire direttamente sui livelli d’efficacia delle azioni prodotte dalle singole governance nazionali in funzione degli obiettivi prefissati. Non è cosa di poco conto.

Ancora una volta, il nostro governo e l’intera comunità statuale italiana saranno posti di fronte a un dilemma: accettare di osservare in modo pedissequo le indicazioni e i diktat che verranno imposti dall’Ue, i quali si andranno a sommare a tutti gli altri già resi esecutivi in questi anni, oppure si continuerà a”giuocare” con un comportamento vagamente “luddista” della nostra classe politica, cioè si preferirà tentare di sabotare la macchina dell’integrazione europea nella falsa illusione di colpire, così facendo, l’ipotetico responsabile di tutti i nostri mali e di ogni nostra odierna miseria.

In effetti, il clima elettorale che si sta già ampiamente vivendo induce a questo tipo di facilitazione dello scontro politico: da una parte quelli che, nell’immaginario collettivo, servirebbero da chierichetti all’altare dell’officiante Angela Merkel, dall’altra i “descamisados”, pronti all’azione di ribellione garibaldina insieme con tutte le forze euroscettiche autonomiste e nazionaliste che circolano per l’Europa. Se così davvero fosse, non ci sarebbe di che essere allegri. Sarebbe, invece, molto più utile al Paese, e desiderabile, che una volta tanto l’Italia sapesse svolgere un ruolo propositivo nel costruire un modello operativo che consenta di cogliere l’obiettivo senza sacrificare ulteriormente la libertà sovrana del singolo Stato di decidere da sé ciò che sia più giusto fare per i propri cittadini.

E, per dirla tutta, non sarebbe il caso di arroccarsi in una sterile difesa di bandiera che si tradurrebbe, in concreto, nella mera difesa di interessi e privilegi che hanno, nel tempo, fatto la fortuna di burocrazie parassitarie e corrotte e di apparati partitici clientelari e voraci. Non bisogna essere per forza un fan della cancelliera per sostenere che di fare la parte dell’utile idiota di modo da garantire gli interessi beceri degli “arricchiti” con i denari pubblici, non fa per noi gente qualunque. Sarebbe auspicabile che un centrodestra, depurato dei frammenti del vecchio centrismo di marca democristiana, si facesse carico di aprire il dibattito sull’argomento ritenendo strategica la discussione intorno al modello di partenariato sotenibile rispetto alla condizione attuale del nostro impianto istituzionale centrale e locale.

D’altro canto è proprio il Consiglio europeo che ce ne offre l’opportunità. La fase d’implementazione del sistema degli accordi contrattuali reciprocamente concordati e i correlati meccanismi di solidarietà individuati dovrà completarsi per uno step iniziale di verifica entro ottobre 2014. I risultati saranno condivisi e discussi durante il vertice europeo dedicato al progetto e previsto per quella data. Per una fortunata circostanza, la scadenza cade nel pieno del semestre di Presidenza italiana del Consiglio. In quella sede si dovrà discutere della questione, niente affatto secondaria, del peso specifico degli incentivi finanziari da assegnare ai patti valutati e approvati in sede centrale.

Quale occasione migliore per dirigere e orientare la costruzione operativa del modello progettuale verso soluzioni favorevoli agli interessi italiani? A saperla giocare, sarebbe davvero una gran partita. Ma a guardarli in faccia questi nostri governanti proprio non ispirano entusiasmo, e ottimismo. Sarà già tanto se non si faranno travolgere dai soliti “padroni del vapore” per poi venirci a raccontare che no, è stato un altro successo, come hanno fatto in questi giorni con la storiella dello spread. Che il nostro Governo… “siamo una squadra fortissimi”. E che la crisi non c’è, siamo in ripresa. Peccato che nessuno se n’è accorto. E che poi non è vero che in tanti ci siamo giocati la speranza al banchetto delle tre carte del Primo Ministro. Natale è già passato e non se ne prevedono altri per i prossimi mesi. Quel che è certo è che ci aspetta un’altra, prossima, quaresima. Tanto per cambiare!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:51