Guerra dei droni Sii paranoico?

“Be paranoid”, sii paranoico. È l’invito rivolto al lettore dall’ultimo numero della rivista libertaria Reason Magazine, che mette assieme i pericoli dello spionaggio elettronico della Nsa (agenzia di sicurezza nazionale), lo spionaggio fiscale della Irs (agenzia delle entrate) ai danni dei membri del Tea Party. E ovviamente: i droni. Uno dei quali, nero e inquietante come un insetto meccanico, è ritratto in copertina.

I droni sono regolarmente usati dagli Stati Uniti, in patria e all’estero. Sono tanto diffusi che li usano i maggiori telegiornali e reporter indipendenti, sono fatti volare dai fotografi dei matrimoni per ottenere panoramiche sugli invitati e dagli agenti immobiliari per far vedere al cliente l’interno delle future case senza entrarvi. Sono, manco a dirlo, fonte di paranoia.

Chiunque, adesso, mi può filmare e fotografare mentre sono a casa mia. Negli Stati Uniti serpeggia il timore che i droni possano anche iniziare ad uccidere. Droni armati, pilotati dalla Cia o dall’Fbi, per eliminare nemici attuali e potenziali, veri o presunti. Rand Paul, deputato libertario, ha tenuto inchiodati i Democratici e il loro candidato alla Cia, John Brennan, per 13 ore, con un lungo discorso record, incentrato proprio sul timore dei droni.

Ieri, un nuovo rapporto di Amnesty International, parla proprio delle vittime civili di questi aerei senza pilota, usati estensivamente in Afghanistan e in Pakistan. Si contano sulle centinaia, fra i 400 e i 900. “Will I be the Next?” è il provocatorio titolo del rapporto: sarò io la prossima? Se lo chiede una bambina pakistana intervistata, Nabila Bibi, dopo che sua nonna è stata ammazzata da un loro missile, mentre coltivava vicino a casa sua.

Amnesty International non protesta solo per le vittime collaterali. Denuncia il metodo di guerra al terrorismo: i droni sono usati contro sospetti terroristi (anche cittadini americani, con grande orrore per i libertari) senza processo, senza troppi accertamenti, anche quando sono tecnicamente innocenti fino a prova contraria.

Sono il braccio violento della giustizia militare, agiscono pilotati da una base aerea a migliaia di chilometri e fulminano, con i loro missili, la vittima inquadrata sul computer di un agente, su ordine del presidente. Tutti i bersagli sono infatti approvati dalla Casa Bianca, fra i nomi elencati in una lunga “kill list”. “Be paranoid”? Verrebbe da esserlo, leggendo il rapporto di Amnesty e sentendo le ultime notizie sullo spionaggio internazionale della Nsa.

Ma ci dimenticheremmo dell’aspetto principale di tutta questa vicenda: c’è una guerra al terrorismo ancora in corso. Quando spari al nemico, non gli elenchi prima i suoi diritti, come farebbe un poliziotto al momento dell’arresto. I cittadini di oggi si sono forse dimenticati, o non hanno mai studiato, le decine di migliaia di morti della Prima e della Seconda Guerra Mondiale. Nessuno ha mai protestato per i tedeschi e i giapponesi uccisi su larga scala, non solo in battaglia, ma anche nelle loro stesse case, dietro le linee del fronte.

Eppure è così che si combatte una guerra: si uccide il nemico. Si cerca di escludere il non combattente, ma non sempre ci si riesce. I mezzi evolvono, anche in questo campo. Da quattrocento a novecento civili ci sono andati di mezzo, ma sono pur sempre meno rispetto alle centinaia di migliaia di vittime dei bombardamenti sulle città tedesche, italiane e giapponesi della Seconda Guerra Mondiale.

Allora l’unico modo usato per cercare di risparmiare le vite ai civili erano i “volantini di Le May” (del generale Curtis Le May), lanciati sulle città prima dei bombardamenti: “Sfortunatamente le bombe non hanno occhi – recitavano – così, in linea con le politiche umanitarie americane, le forze aeree degli Stati Uniti, che non vogliono uccidere o ferire innocenti, vi avvertono di evacuare questa città e salvare le vostre vite”.

Adesso che le bombe hanno gli occhi, quelli elettronici dei droni. Possono colpire selettivamente il bersaglio. I civili uccisi sono solo coloro che hanno la sventura di trovarsi vicinissimi all’impatto. O hanno la sfortuna ancora maggiore di essere confusi con un altro bersaglio. In dieci anni di guerra al terrorismo, in Yemen, Somalia, Afghanistan e Pakistan, nemmeno 1000 vittime collaterali sono già un grande successo. Il nostro strabismo umanitario, un giudizio severo usato solo per giudicare gli Stati Uniti di oggi, non quelli di ieri e non altri Paesi, cede di fronte al confronto con altri eserciti impegnati nella stessa guerra al terrorismo.

E ci fa dimenticare quali e quante siano le vittime del terrorismo contro cui si combatte: manca una statistica complessiva di tutti i civili assassinati da Al Qaeda e suoi alleati dal 2001 ad oggi. I nove decimi delle vittime sono civili musulmani mediorientali. Sappiamo che, in Occidente, i soli attentati dell’11 settembre, di Atocha e Londra hanno provocato circa 3500 vittime, tre volte e mezzo i morti provocati dai droni. L’esplosione di una terrorista suicida su un autobus di passeggeri a Volgograd, in piena Russia, lontano dai campi di battaglia del Caucaso, ci ricorda come il terrorismo possa colpire ovunque, con quali metodi e con quali fini.

La Russia ha condotto una guerra contro gli jihadisti con metodi molto più brutali rispetto a quelli statunitensi. Non usando i droni, ma ricorrendo ai mezzi tradizionali: carri armati, artiglieria e bombardamenti a tappeto, come nella Seconda Guerra Mondiale. E rastrellamenti, senza fare troppi distinguo fra civili e terroristi. In dieci anni di guerra nel Caucaso, in Cecenia, Daghestan e Inguscezia i morti sono 16mila miliziani e 50mila civili.

Ben altri numeri, ben altra sensibilità nel giudizio. Eppure i terroristi colpiscono ancora, anche su un autobus, lontano dalle zone di guerra, ammazzando studenti che tornano a casa e mai si aspetterebbero di trovarsi sotto il fuoco del nemico. Sii paranoico. Certo, ma il governo federale americano, in mezzo a tutto questo terrore, è l’ultimo di cui dobbiamo aver paura.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:41