Putin, presidente degli Stati Uniti

Il presidente della Russia si rivolge al popolo degli Stati Uniti, invitandolo a non intervenire in Siria, a rispettare il diritto internazionale, a non sottovalutare il pericolo di Al Qaeda (che combatte contro Bashar al Assad) e a difendere Israele da un possibile attacco di armi chimiche lanciato dai terroristi. Avete letto bene. A ribadire questi principi al popolo americano non è il presidente degli Stati Uniti (Barack Obama), ma il presidente della Russia (Vladimir Putin).

 Il capo del Cremlino, ex agente del Kgb, probabilmente ancora comunista (anche se non dichiarato) richiama all’ordine i princìpi americani. Li inserisce nella sua lettera aperta pubblicata sul più progressista dei quotidiani americani, il New York Times, anche se si rivolge al suo pubblico con toni da conservatore, come se fosse un reaganiano cresciuto dalla parte sbagliata della Cortina di Ferro. D’altra parte, in un mondo alla rovescia, in cui è il Papa che scrive a Scalfari, anche Putin può parlare da reaganiano, contro Al Qaeda e in difesa di Israele. La lettera di Putin ha contenuti molto seri. Non è la tipica operazione di ingenua disinformazione in stile Kgb, come quando Mosca dichiarava di aver subito 10mila morti civili in poche ore, nel primo giorno della Guerra in Georgia.

 Putin, questa volta, parla con cognizione di causa di un pericolo islamico in Siria, che c’è veramente e si manifesta in mille modi. “Non si possono ignorare notizie in cui si afferma che i militanti stanno preparando un altro attacco (con armi chimiche, ndr) questa volta contro Israele”. È probabile che questa informazione sia vera, perché è confermata da altre testimonianze indipendenti ed è resa plausibile dalla composizione delle milizie islamiche ribelli. A Maalula, l’antichissima città cristiana (dove si parla ancora un dialetto aramaico, la lingua di Gesù), i miliziani che uccidono civili e fanno scempio delle chiese, secondo i testimoni locali, non sono nemmeno siriani. Sono pakistani, libici, egiziani, ceceni, volontari jihadisti di tutto il mondo radicale islamico.

Un ex interprete del governo siriano, un siriano cristiano di origine armena, dichiara a Radio Free Europe di essere fuggito da Aleppo, vittima di una vera e propria invasione straniera. Mihran Bertizlian, l’armeno in questione, si dice favorevole ad una rivoluzione democratica, ma precisa che questa che si sta combattendo, non è più una guerra siriana. Che ciò che unisce i ribelli non è la democrazia, ma l’Islam. Combattono contro Assad, secondo la testimonianza di Bertizlian, perché lo ritengono già troppo filo-israeliano. Non mirano tanto alla conquista di Damasco, quanto a quella di Gerusalemme.

 Le testimonianze degli ostaggi liberati, a partire da quella di Domenico Quirico, rivelano tutto il fanatismo anti-occidentale dei ribelli anti-Assad. Altri giornalisti statunitensi, come Austin Tice, James Foley, Matthew Schrier, sono stati catturati in quanto americani, perché sospettati di essere “agenti”. Non è più una guerra democratica, ma una jihad. È assolutamente plausibile, come sostiene Putin nella sua lettera aperta, che i ribelli vogliano lanciare armi chimiche contro Israele. Sarebbe la logica conseguenza della loro agenda ideologica.

Quando saranno in grado di farlo, potrebbero anche usarle in attentati contro gli Stati Uniti. Il problema vero è capire perché, mentre riprendono a Ginevra le trattative fra i ministro degli Esteri Lavrov e Kerry, sia Putin a dover ricordare agli americani quali siano i loro veri interessi nazionali. Non ci sono spiegazioni che tengano. Se non quella sedia vuota, scelta da Clint Eastwood, quale simbolo della carenza di leadership di Barack Obama.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:42