Diamo una possibilità al processo di pace

C’è diffuso cinismo e scetticismo a proposito del riavvio del processo di pace israelo-palestinese, agevolato dagli Stati Uniti. Ma le domande sono numerose: perché riavviare il processo proprio ora, mentre il Medio Oriente è in subbuglio e il suo percorso futuro è nebuloso? Perché tale ossessione americana con questo problema, quando l'Iran, la Russia, la Siria, l’Egitto, la Corea del Nord, e la Cina dovrebbero avere priorità nell’agenda statunitense? Chi è pronto a credere che l’autorità palestinese sia disposta oggi più di ieri ad impegnarsi seriamente in un colloquio costruttivo? Come si può discutere di un accordo a due Stati quando Gaza è nelle mani di Hamas? Il Primo Ministro Netanyahu, retorica a parte, è veramente intenzionato a trovare un accordo? E sarà possibile per il popolo israeliano accantonare i propri dubbi circa le intenzioni palestinesi per sostenere un accordo che comporterà grandi sacrifici e rischi - e che anzi ha già dovuto sopportare vista la recente liberazione di assassini palestinesi condannati (cosa che dovrebbe essere sufficiente per rispondere alla domanda precedente)? Queste preoccupazioni non dovrebbero essere ignorate, ma c'è dell’altro che ci porta a concludere che vale la pena di perseguire il processo di pace.

Non dico questo, come qualcuno ha suggerito, per ingraziarmi l’amministrazione Obama, né per ricevere altri biglietti per la festa di Chanukà alla Casa Bianca, né per ottenere una pacca sulla spalla dal segretario di Stato, John Kerry. E non ho neanche cominciato a credere alla favola che spopola a sinistra, quella che racconta che la grande Woodstock Mediorientale è proprio dietro l'angolo. Neanche per idea. Piuttosto, lo faccio per tre motivi. In primo luogo, per gli amici di Israele, lo status quo può sembrare sostenibile. In realtà, non lo è. Vero, l’economia israeliana continua a fare meraviglie.

L'IDF è al picco della sua potenza. Gli atti terroristici contro gli israeliani sono scesi molto negli ultimi mesi. E la vita in Israele sta girando in un modo che pochi al di fuori del Paese, che si affidano ai media per le loro opinioni, potrebbero mai pienamente apprezzare. Ma dove ci porta tutto questo? I palestinesi stanno forse per scomparire? Le loro richieste evaporeranno o finiranno nel dimenticatoio? L’opinione pubblica mondiale, trainata su questo punto dalla UE e dalla maggioranza numerica alle Nazioni Unite, smetterà di occuparsi instancabilmente dei palestinesi? Gli Stati Uniti saranno sempre lì a difendere la politica di Israele, anche se Washington la ritiene miope e autolesionista? In altre parole, Israele, se lo volesse, sarebbe in grado di mantenere il controllo della Cisgiordania in un lontano futuro, senza gravi conseguenze? Perché Israele rimanga uno stato democratico ed ebraico, è nell’interesse nazionale di Israele cercare un modo per districarsi dal dominio sul maggior numero possibile di palestinesi.

Certo, Israele è entrato in possesso della Cisgiordania in una guerra difensiva nel 1967 e, se non ne fosse uscito vincitore, il Paese avrebbe rischiato l’annientamento. Ed è anche vero che la Cisgiordania è la culla della civiltà ebraica. Ma questo non chiude il dibattito. Piuttosto, sottolinea la necessità di dare attenzione straordinaria alle misure di sicurezza e alle solide garanzie per l’accesso di Israele di luoghi sacri ebraici in un qualsiasi accordo a due Stati. In secondo luogo, ho creduto a lungo - e, di conseguenza, mi sono scontrato spesso con alcuni esponenti della sinistra - che se bisogna raggiungere un accordo a due stati, è meglio che a siglarlo sia un leader israeliano duro, di centrodestra, che abbia credenziali di sicurezza impeccabili.

Questo è appunto il caso oggi in Israele. Coloro che lamentano il riavvio del processo di pace sembrano aver dimenticato che i colloqui sono condotti sul lato israeliano da Benjamin Netanyahu, e sostenuti da alti funzionari quali Moshe Ya'alon, ministro della Difesa ed ex capo del personale dell’IDF, e dal ministro della Giustizia Tzipi Livni, che vanta Likud e Mossad nel suo curriculum. Forse ora i critici non vogliono fidarsi di loro, ma non si fiderebbero di chiunque osasse sedersi al tavolo delle trattative. Ci saranno sempre accuse ai leader “che si svendono”, o che “cedono alle eccessive pressioni degli Stati Uniti”, o che “sono alla ricerca del Premio Nobel per la pace”. Netanyahu, Yaron, Livni e altri hanno avuto uno scopo principale nella vita, quello di garantire la sicurezza e la vitalità di Israele quale patria nazionale del popolo ebraico.

 Come i loro critici da destra, conoscono le immense difficoltà che si incontrano nel perseguire questo obiettivo - dal continuo incitare e glorificare il terrorismo da parte dei palestinesi, alle profonde questioni sul contesto regionale, alle preoccupazioni circa la fattibilità di un futuro Stato palestinese “democratico” e “demilitarizzato”. Sono forse diventati improvvisamente ingenui, sprovveduti e smidollati riguardo la sfida che li aspetta? Certo che no. Piuttosto, hanno raggiunto la conclusione che lo status quo non è nell’interesse a lungo termine di Israele - e che le scelte nella vita non sono sempre tra “buoni” e “cattivi”, ma, il più delle volte, tra i “cattivi” e “quelli ancora peggio”. E in terzo luogo, il coro dei critici di destra attribuisce agli Stati Uniti motivazioni maligne, che vorrebbero il processo di pace innescato da un Obama ostile che vuole creare “danno” ad Israele nel tentativo di “riorientare” la politica estera degli Stati Uniti. Non ci credo.

E non lo dico da persona di parte, dato che non lo sono proprio per niente. Cosa ci vuole per convincere gli scettici della buona volontà americana? Probabilmente non funzionerà niente, ma malgrado alcuni primi passi falsi da parte dell'amministrazione Obama, ci sono alcuni indizi convincenti: le relazioni bilaterali in campo militare, strategico, e di intelligence non sono mai state più solide, come possono testimoniare gli israeliani che conoscono la questione; gli Stati Uniti hanno di volta in volta difeso Israele presso le Nazioni Unite, spesso da soli; e le decisioni di voto del Segretario di Stato Kerry durante la sua lunga carriera al Senato sono sotto gli occhi di tutti. Infine, mi sia concesso di inquadrare il problema in un altro modo. Israele non deve mai esitare a presentarsi ad un qualsiasi serio tavolo dei negoziati.

 Lo fa oggi da una posizione di notevole forza. Non è nella posizione di poter essere costretta a firmare un affare che possa essere potenzialmente dannoso per la sicurezza del Paese. Gli Stati Uniti sono un potente alleato. E non dimentichiamo che il Paese è guidato dall’antico desiderio ebraico per una pace duratura. Se i palestinesi dimostreranno di nuovo di non essere all’altezza come hanno fatto nel 2000-1 e di nuovo nel 2008, il mondo vedrà chi ha boicottato l’affare potenziale. Certo, c'è sempre la solita comunità filo-palestinese - diplomatici, giornalisti, attivisti per i “diritti umani” ed artisti - che sono dei ciechi volontari, per i quali il problema è sempre stato e sarà Israele, ma gli altri capiranno. E se per miracolo, la leadership palestinese in realtà si rivelasse essere un partner affidabile questa volta, sarebbe una buona ragione in più per provarci. Quindi, diamo una possibilità al processo di pace.

(*) David Harris è direttore esecutivo dell’American Jewish Committee (www.ajc.org)

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:48