Siria, ecco perché appoggio l'intervento

In questi giorni, la Siria è l’argomento che domina il dibattito nella politica interna degli Stati Uniti, e con buoni motivi. Se e come gli Stati Uniti reagiranno alle prove che il regime siriano abbia utilizzato armi chimiche il 21 agosto scorso è una questione importante, indipendentemente da quale sia il proprio punto di vista. Chi pensa di avere certezze assolute, sia da un verso che per l’altro, non tiene conto di alcuni fatti fondamentali. Agli interventisti senza se e senza ma, incuranti delle conseguenze sul campo, chiedo una pausa di riflessione. Eventuali errori di calcolo potrebbero impantanare gli Stati Uniti in una guerra civile complicata e senza vie di uscita in vista, dimostrando ancora una volta che è molto più facile entrare in un conflitto che uscirne fuori. A quelli che vogliono astenersi assolutamente da qualsiasi coinvolgimento, ripensateci.

La passività degli Usa manderebbe un segnale di via libera alle nazioni e ai gruppi in possesso di armi di distruzione di massa, dando credito all’idea che Washington non risponderà al loro utilizzo, e aprendo la strada a calamità ancora peggiori a venire. A conti fatti, non me la sento di restare in panchina. Gli argomenti a favore di un'azione limitata degli Stati Uniti sono molto più convincenti di quelli contro. Perché dico questo? Intanto cominciamo a chiarire alcuni punti. Non si tratta di un desiderio di impegnare truppe sul campo, né di sottoscrivere una azione di tipo aperto. Entrambe le scelte potrebbero rivelarsi disastrose.

In fin dei conti, la guerra civile siriana non è la nostra guerra. Inoltre, un conflitto che è oramai diventato uno scontro tra il regime delinquente di Assad e i jihadisti sunniti non offre molto in termini di scelte vantaggiose. Non si tratta neanche di Israele, per quanto se ne senta dire. In realtà, Israele è in stato di allerta, i cittadini hanno già ricevuto maschere antigas, perché la troika - la Siria e i suoi alleati inseparabili, Iran e Hezbollah - potrebbe cercare di sviare l’attenzione aprendo un nuovo fronte. Ma l’affidabilità di Israele come alleato degli Stati Uniti significa la disponibilità ad accettare rischi maggiori per sostenere gli interessi della sicurezza nazionale di Washington. E questo è un punto da non sottovalutare. E non si tratta di politica interna.

C’è chi dice che Obama avrebbe bisogno di essere “salvato” da una trappola autocostruita tracciando lo scorso anno la famosa “linea rossa” da non oltrepassare sull’utilizzo di armi chimiche siriane. Altri vogliono punire il presidente, gongolando per le disgrazie altrui, approfittando della sua attuale vulnerabilità. Per me, ciò che è in gioco non è un individuo, ma l’intero nostro Paese. Se gli Stati Uniti indietreggiassero adesso e, nonostante la nostra dichiarata linea rossa, lasciassero la Siria impunita per l’utilizzo di armi chimiche, quale sarebbe il messaggio inviato al mondo? La risposta è ovvia. Per i nostri avversari, si tratterebbe di un’abdicazione della leadership americana, che, a sua volta, aprirebbe la via ad ulteriori sfide ai valori e agli interessi degli Stati Uniti.

I vari leader, da Teheran a Pyongyang, potrebbero concludere che gli americani sono stanchi della guerra e non vogliono passare dalle parole ai fatti, col risultato che questi leader potrebbero prendere coraggio e diventare ancora più minacciosi. E dunque, perché mai dovrebbero poi credere a qualsiasi altra linea rossa statunitense se non siamo riusciti a intervenire su questa? In altre parole, un mondo già di per sé pericoloso lo sarebbe ancora di più. Ad esempio, la Siria o altri potrebbero ricorrere di nuovo alle armi chimiche, e il bilancio del prossimo attacco potrebbe ammontare a decine di migliaia di vittime. È vero che sotto il regime di Saddam Hussein, l’Irak utilizzò armi chimiche contro l'Iran e contro i suoi stessi cittadini curdi, mietendo un numero enorme di vittime. Ma il fallimento della comunità internazionale di allora non può giustificare l'incapacità di agire adesso.

Al contrario, se ci fosse stata a suo tempo una risposta dura da parte della comunità internazionale, costringendo Saddam a pagare il prezzo delle proprie scelte, forse Bashar al-Assad ci avrebbe pensato due volte prima di mettere mano alle scorte di armi chimiche oggi. E per i Paesi alleati degli Usa, quale sarebbe il messaggio, e come potrebbe influenzare i propri interessi di sicurezza nazionale? Sicuramente, Seoul e Tokyo ne prenderebbero atto, chiedendosi quali garanzie di sicurezza possano offrire gli Usa nei confronti della Corea del Nord in conseguenza di ciò. I Paesi Arabi e Israele, sempre attenti alla crescente minaccia rappresentata dal programma nucleare iraniano, potrebbero giungere alla conclusione che le ripetute promesse di Washington di impedire a Teheran di portare a termine il suo programma possano sembrare vuote, con ripercussioni profonde da Riyadh a Gerusalemme, da Amman a Dubai, e oltre. Speriamo che il Congresso, dopo aver esaminato i fatti e tenuto conto delle conseguenze, faccia la cosa giusta e autorizzi un'azione militare limitata. La posta in gioco per gli Stati Uniti, e il mondo, non potrebbe essere più alta.

(*) David Harris è direttore esecutivo dell'American Jewish Committee www.ajc.org

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:51