Oltreoceano di(vino) In Wine We Trust

“Tutti gli uomini sono ugualmente liberi e indipendenti”. Fu da questa frase di Filippo Mazzei che, nel 1776, Thomas Jefferson fu ispirato quando, nello scrivere la Dichiarazione d’Indipendenza, inserì il famoso “All men are created equal”. Thomas e Filippo erano buoni amici: originario della Virginia, il primo; toscano, il secondo. I due non condividevano solamente le idee liberali - allora visionarie - che avrebbero cambiato il mondo. Mazzei partì dalla Toscana nel 1773 con la volontà di portare i vitigni della sua terra nel Paese di Jefferson, e grazie al suo aiuto ci riuscì, proprio in Virginia, fondando la prima azienda vinicola americana di origine italiana (anzi, europea). Oggi quell’azienda è rinata proprio a Monticello in Virginia, dove c’è la storica tenuta di Jefferson e produce un vino che non a caso si chiama Philip.

Gli italiani arrivarono poi sull’altra costa, in California, e lì iniziarono a produrre vino, mettendo a frutto ciò che avevano imparato in Italia. Ancora oggi sono molti i brand di vino californiano di chiara origine italiana: Sebastiani, Delicato, Rossi, Gallo, Mondavi, Trione, Barra, Foppiano e Viansa, solo per citare i più celebri. Il vino fu il primo settore commerciale nel quale gli italiani emigrati in America poterono dimostrare il loro valore, riscattando le discriminazioni e gli stereotipi che li volevano solo umili lavoratori manuali o criminali: ebbe un importantissimo ruolo nell’evoluzione del pensiero americano verso i nostri connazionali, e non ha mai smesso di essere un’eccellenza italiana apprezzata ed ammirata negli Stati Uniti. Il vino è quindi alla base delle prime relazioni tra Italia e Stati Uniti, quando ancora non esistevano né la prima né i secondi.

Con un giro di affari di oltre 9 miliardi di euro, oggi il settore vinicolo dà lavoro a più di un milione e duecentomila italiani. Siamo il secondo produttore al mondo, dietro ai cugini francesi, e il primo Paese estero in cui esportiamo il nostro nettare è non a caso proprio l’America, che è anche il primo mercato al mondo per consumo di vino. È di questo che parliamo oggi con Umberto Gambino: esperto del settore, giornalista, e fondatore del portale www.wining.it, che in poco tempo si è conquistato uno spazio molto importante tra gli addetti ai lavori e i consumatori di uno dei principali prodotti per cui l’Italia è oggetto di innamoramento.

Umberto, il vino è oggetto di molte iniziative di informazione su internet. Tu hai dato vita a www.wining.it , che in breve sta raggiungendo successo e credibilità in un settore in cui non sempre queste due caratteristiche camminano insieme. Qual è il motivo della tua passione per il settore vinicolo? E perché Wining è diverso dagli altri?

Il mio rapporto col vino inizia già da bambino: mio nonno era un viticoltore, a Milazzo in Sicilia, e coltivava sia uve bianche che uve rosse, oltre che lo zibibbo, quell’uva che dà poi vita al moscato e al passito di Pantelleria. A settembre mi portava a vedere come si faceva la vendemmia e mi permetteva di staccare qualche grappolo d’uva, con la dovuta accortezza, dopo che per tutto l’anno ogni settimana mi mostrava come cresceva. Ho questi ricordi di uomini, donne e ragazzi che si mettevano a pestare l’uva, e poi nel mese di novembre mi portavano dentro la cantina dove si spillava il vino nuovo: avevo otto anni e mi facevano assaggiare il vino rosso (allungato con l’acqua, vista la mia età), e mi è rimasto nella memoria tutto, anche i profumi.

A 15 anni non ne volevo più sentire parlare, mi ero un po’ allontanato da quel mondo: ma ho poi ripreso ad interessarmi al vino di qualità e alla sua elaborazione, nell’ultima fase di vita di mio padre. Mio nonno era mancato 15 anni prima. Io sentivo dentro di me che dovevo rendere omaggio ad entrambi. Era il vino che mi legava fortemente a loro e alla mia terra! Mi iscrissi perciò al corso di sommelier, era il 2002, e da quel momento è esplosa la mia passione – sia personale che professionale, lavorando per la televisione – per il vino, per la cultura in esso contenuta, per tutto il processo che porta fino alla bottiglia finita, per le storie di uomini e territori che stanno dietro a ogni singolo vigneto e cantina. wining.it sta andando molto bene, abbiamo dei numeri molto buoni, considerando che siamo andati on-line poco più di un anno e mezzo fa.

Il sito è strutturato come un portale che racconta i reportage dei viaggiatori che vanno nelle aziende vinicole o agli eventi (scelti fra i tanti, a nostro libero giudizio), e raccontano quello che vedono e provano con uno stile discorsivo, a portata di tutti, possibilmente non tecnico. Di fatto è un web magazine sul vino (e ovviamente anche sul cibo) mascherato da blog: chi ci scrive condivide le proprie emozioni, l’esperienza che gli deriva dall’assaggio del vino, non solo le caratteristiche del prodotto. Siamo presenti su quasi tutto il territorio nazionale: per ora non siamo in quelle che dal punto di vista enologico sono un po’ più indietro, come Liguria o Molise, ma presto saremo anche lì. Lo staff che si è formato in questi mesi è casualmente composto solamente da collaboratrici, tutte bravissime, attualmente sono 14: siamo un sito “rosa”.

Il vino rappresentò per gli italoamericani emigrati in America una occasione di riscatto morale ed economico, e di dimostrazione della propria voglia di intraprendere. D’altro canto furono italiani coloro che portarono in auge quella che oggi in America è una florida industria. Ci parli un po’ della storia del vino tra gli italiani d’America?

Per il settore vinicolo americano, gli italiani emigrati hanno avuto un ruolo fondamentale. Se oggi andiamo a vedere i marchi americani più importanti e più acquistati, non mancano i nomi chiaramente di origine italiana: pensiamo ai Gallo, dove il fondatore – deceduto a più di 90 anni – è stato in California un protagonista assoluto nella crescita del comparto, sia come prodotto che come business su grandi numeri. Gli italiani furono coloro che introdussero la conoscenza e la capacità delle migliori tecniche di allevamento delle uve e del lavoro in vigna, che prima gli americani non conoscevano. Veneti, toscani, abruzzesi, meridionali da diverse regioni: i nostri connazionali avevano esperienza simili ma anche molteplici, e furono loro ad attivare le opportunità del settore vinicolo negli Stati Uniti.

Negli anni a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo gli americani portarono dall’Italia le barbatelle di Sangiovese o di Primitivo pugliese, ma non riuscivano a superare l’ostacolo della fillossera, un parassita che distruggeva i vigneti sia in America che in Europa: la vite non attecchiva e le piante morivano. Agli inizi del Ventesimo secolo si scoprì che le radici delle piante americane erano immuni dalla fillossera e si fece un esperimento: si innestò la pianta di vite europea sui portainnesti americani. Fu un successo! E i viticoltori italiani, immigrati negli States, furono in prima fila, soprattutto a Napa Valley, in California. Da lì, con la coltivazione delle uve da vino iniziò una nuova Era. Il settore dovette poi superare il periodo del proibizionismo: perché tutti ricordano del divieto di vendere superalcolici, ma anche il vino fu proibito dal 1919 al 1933.

Oggi il vino americano di parecchi Stati – non solo la California, dove si produce il 90% dei vini degli States: si pensi all’Oregon, allo Stato di Washington, alla Virginia – è apprezzato, ma in parte lo deve ai nostri connazionali emigrati e a coloro che ancora oggi lavorano nel settore. Ad esempio in Virginia c’è una importante cantina di eccellenza di Zonin che produce vini da vitigni internazionali.

Come va oggi il vino italiano negli Usa? Siamo in un trend positivo?

Devo dire che il vino italiano è molto ben recensito dai mezzi di comunicazione leader in questo settore, come Wine Spectator, Wine Enthusiast e Wine Advocate, i grandi siti seguiti da tanti americani e che creano le tendenze: per fare un esempio, il Sassicaia – che è un "super tuscan" di altissima qualità da circa 150 euro a bottiglia – ha iniziato il suo successo negli anni ’80 prima in America, grazie alle favorevoli recensioni di Wine Spectator, e solo dopo – di riflesso d'oltreoceano – anche molti italiani hanno iniziato a considerarlo come un’eccellenza.

Nei primi 6 mesi del 2013 l’export dei vini italiani in America ha fatto + 2% in quantità e + 8,5% in più in valore, per un totale di oltre 1,2 milioni di ettolitri e per un valore di circa 650 milioni di dollari. Abbiamo una quota di mercato del 25 % per quanto riguarda la quantità e del 31% per quanto riguarda il valore delle importazioni vinicole americane. Tra i rossi, considerando il rapporto qualità/prezzo e quindi rimanendo nel mercato non di élite, il Chianti è il vino italiano più conosciuto e venduto; mentre se andiamo su vini di più elevato costo, i più apprezzati sono il Brunello di Montalcino (Toscana), il Barolo piemontese, l’Amarone della Valpolicella (Veneto) e il Sagrantino di Montefalco (Umbria). Per questa fascia parliamo di rossi che nei primi due casi hanno più caratteristiche di eleganza, stoffa, morbidezza, e anche profumi molto cangianti e vari, non banali; mentre gli ultimi due hanno più struttura, più corpo, anche se negli ultimi anni si sono un po’ ammorbiditi, come sta accadendo in generale in tutto il mondo in cui si sta affermando la tendenza in tavola ad avere vini più leggeri e bevibili.

Per i bianchi abbiamo sicuramente il Moscato del Piemonte, bollicine molto apprezzata negli States; poi c’è il Prosecco veneto, che è il vino che vende di più. Entrambi sono cresciuti del 5% rispetto all’anno scorso. Addirittura il 63% delle bollicine importate negli Stati Uniti è italiano. Le tendenze di oggi sono queste: gli americani chiedono di più i vini dell’Etna, della Sicilia, sia rossi che bianchi, anche grazie alle favorevoli recensioni di alcuni corrispondenti di alcuni tra i più importanti corrispondenti di magazine americani sul vino. Devo dire che negli ultimi anni ci sono state diverse iniziative da parte delle istituzioni e delle associazioni di categoria che hanno lavorato bene per promuovere alcuni marchi ed alcuni territori. Ad esempio, Assovini Sicilia ormai da 11 anni organizza “Sicilia en primeur”, una manifestazione che dura tre giorni e che ogni anno concentra in un posto diverso della Sicilia una sessantina di giornalisti italiani e stranieri per far degustare loro le prime uscite (primeur) dei nuovi vini siciliani bianchi, rossi e dolci, e organizza anche tour enogastronomici facendo conoscere territorio, tradizioni, enogastronomia, artigianalità.

È una bella iniziativa di promozione verso il marchio Sicilia e funziona: infatti la crescita dei vini dell’Etna nel mercato americano è dovuta proprio anche al fatto che l’ultima edizione si è svolta proprio in quella zona. Questo lo fanno bene anche in altre regioni, non solo in Sicilia: ma, purtroppo, non in tutte. Anche il Cannonau sardo e il Primitivo pugliese stanno andando bene: in definitiva possiamo dire che, fra i vini italiani, gli americani preferiscono i rossi e le bollicine. Invece ad esempio i rosati italiani non vanno per la maggiore negli Usa: solo qualche rosato pugliese (il Primitivo vinificato rosato, o il Nero di Troia) o abruzzese (Montepulciano) vanno benino, ma in quella fascia di mercato gli americani preferiscono più rosati francesi o spagnoli a quelli italiani, almeno per ora.

Per il cibo, negli Stati Uniti la fiera per eccellenza è il Fancy Food. Per il vino esiste qualcosa di simile?

No, per il vino non esiste qualcosa di analogo. Una delle fiere più importanti in questo settore la facciamo noi qui nel nostro Paese: è il Vinitaly, che ospita operatori del settore di ogni tipo e di ogni provenienza. In America si organizzano iniziative a cura dei consorzi, o degli enti locali (lo fa il Veneto, lo fa il Trentino Alto Adige), in tre o quattro città più importanti.

Possiamo imparare qualcosa dagli americani nel settore dell’enoturismo?

Senza dubbio. Quasi tutte le aziende vinicole americane ospitano visitatori durante tutto l’anno, e sono attrezzate per questo, come fossero veri e propri monumenti. Fanno marketing, hanno souvenir, offerte, hanno persone espressamente dedicate all’accoglienza, organizzano eventi: è un vero e proprio settore di mercato, anche piuttosto redditizio, nel bilancio dell’azienda. C’è anche in Italia, ma è praticato per bene solo da mille aziende.

E quante sono le aziende che producono vino in Italia?

Nel 2010 eravamo nell’ordine delle trecentottantamila aziende, che di media fanno cinque etichette di vino diverse – bilanciando tra le piccole aziende agricole che magari ne fanno una sola, e i colossi che ne fanno anche venti. Considerando che si differenziano i target: ad esempio, naturalmente la produzione di massa per la vendita al dettaglio nei supermercati differisce per numeri, ma anche per qualità, dalla filiera Horeca (hotel – ristoranti – catering). Il settore vino è uno dei pochi che ha dimostrato di saper resistere in questi anni di crisi: sebbene nel 2000, rispetto ai numeri di oggi, le aziende produttrici di vino fossero ben ottocentomila.

Secondo te quanti di questi vini arrivano negli Stati Uniti?

A mio avviso, però su questo non ho dati precisi - ma solo sensazioni del sottoscritto - circa il 10/15% di questi vini arrivano negli States. Consideriamo che ogni azienda di ogni regione riesce ad esportare in media dal 30 al 40% dei suoi prodotti: ebbene, circa un terzo dell’export dei vini italiani finisce negli Stati Uniti d’America.

Se potessi dare un paio di consigli ai molti produttori italiani che vorrebbero entrare nel mercato statunitense ma non sanno bene come farlo, cosa diresti loro?

Intanto bisogna scegliere il buyer giusto, il compratore che viene in Italia, fa il giro delle aziende, degusta i vini e poi - secondo la tipologia dei suoi clienti americani - decide quali bottiglie far entrare e chi comprare. Non è poi una scelta sbagliata, per i produttori nostrani, immaginare di varcare un paio di volte l’anno l’oceano per cercare rivenditori, conoscere i gusti, le abitudini e le preferenze dei consumatori e del mercato, comprendere le tendenze, studiare la distribuzione. È molto utile, inoltre, per chi è più piccolo, fare consorzio, fare squadra: solo così si razionalizzano le spese e si aggredisce il mercato con etichette ben studiate. Poi c’è l’uso del web, che anche in questo settore è in grande crescita: si possono veicolare contatti, trovare ristoranti e catene di distribuzione, avviare conoscenze che possono sfociare in collaborazioni commerciali. I produttori italiani – in numero sempre maggiore – già lo fanno, con spese molto minori rispetto ad altri metodi e risultati molto più veloci: usano la rete e i social network. Vendono consistenti quantità di vini grazie alla fiducia che si instaura mediante la connessione tra persone che usano questi mezzi e il loro passaparola.

Ci dai qualche nome di vino italiano che secondo te è in procinto di divenire “the next big thing”, il brand che andrà di moda e tutti vorranno assaggiare?

Per il meridione rimarrei in Sicilia, e ti citerei un rosso, il Cerasuolo di Vittoria, che è l’unica Docg (Denominazione di origine controllata e garantita) siciliana; per il nord andrei sugli spumanti Trentodoc, dal Trentino Alto Adige, che sono eccellenti spumanti a metodo classico; mentre dal Centro scommetterei sul Verdicchio dei Castelli di Jesi, vino bianco profumatissimo delle Marche. Mi sbilancio anche con un ultima ipotesi, che è l’Alto Adige Moscato Rosa, della provincia di Bolzano, che è un dolce, non soltanto da dessert: un vino che ha una storia particolare perché sono uve siciliane che furono portate in Alto Adige da alcuni nobili dell'isola. Ora i grappoli crescono in Alto Adige e non più in Sicilia. Una metafora di un’Italia dalle mille diversità ma capace di integrarsi, e dell’emigrazione che dal sud al nord trova successo altrove, come accaduto con gli italiani che andarono negli Stati Uniti.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:40