Il ruolo dell’Italia durante la crisi siriana

La Siria, negli ultimi anni, ha cercato di imporsi come grande potenza geo-politica in Medio Oriente e nel bacino meridionale del Mediterraneo, per cui ha sostenuto tutti i movimenti di rivolta contro quei regimi; in contrapposizione, si è creata una diffusa opposizione politica di questi Paesi contro l’Iran. Il mondo arabo, nel suo insieme, è stato politicamente contro i persiani. Successivamente si è creato un asse comprendente gli sciiti iraniani e quelli vicini agli sciiti, cioè la minoranza alawita di Siria e gli Hezbollah libanesi. E, come contraccolpo, si è avuto un altro asse, quello sunnita. La precedente ostilità politica si è così aggravata e si è approfondita con la secolare rivalità religiosa. Per i sunniti tutti gli sciiti, anche quelli non filo iraniani, si sono trasformati in avversari.

Ma mentre l’asse sciita (Iran, Siria, Hezbollah) è solido, l’asse sunnita è, invece, attraversato da profonde divisioni. Turchia e Qatar appoggiano la Fratellanza Musulmana che è, però, combattuta dall’Arabia Saudita, la quale, sostenendo il wahhabismo, dottrina rivale della Fratellanza, appoggia i salafiti, più attenti a questioni di purità personale che a problemi collettivi. Le minoranze liberaleggianti, a loro volta, sono contro i Fratelli Musulmani e i salafiti. Il solo collante che accomuna attualmente i sunniti è l’opposizione ad Assad e allo sponsor iraniano. È in questo contesto che va vista anche la rivalità per l’egemonia regionale fra Arabia Saudita e Turchia. La Turchia di Erdogan, soprattutto dopo che l’Unione Europea si è mostrata molto riluttante ad accoglierla, si è rivolta verso gli altri Paesi musulmani.

La Turchia, cioè, in occasione delle “primavere” arabe, ha sostenuto i Fratelli Musulmani e ha appoggiato l’egiziano Morsi, esercitando in questo modo una sua leadership. L’attuale vicenda siriana si gioca soprattutto all’interno del mondo arabo. L’Arabia Saudita è “decisa” a combattere il rais di Damasco, così come il Qatar. La Turchia parla di “crimine contro l’umanità”. La Lega araba, anche se in maniera alquanto ambigua, per non urtare la sensibilità dell’Iraq, concorda sostanzialmente con una opposizione dura, spingendosi fino all’intervento. È ovvio che sul versante opposto, Teheran, per sostenere le sorti di Assad, minacci un “effetto destabilizzante per l’intera regione”, ventilando anche conseguenze per Israele. Gli occidentali hanno un ruolo solo in apparenza importante. Nella sostanza, però, non avendo, politicamente, nessuna visione prospettica d’insieme (non è stato avviata a concreta soluzione neanche l’annosa questione israelo-palestinese), sono costretti a giocare su singoli e limitati interventi.

Ciò facendo, però, lasciano spazio a tutte le forze locali, comprese quelle jihadiste (come avvenuto in Libia) che si richiamano al radicalismo militante di Al Qaeda, con il rischio non lontano che potrebbero essere coinvolti anche il Libano, dal precario equilibrio confessionale, l’Iraq, che da mesi brucia in attentati antisciiti, e la Giordania. Gli Usa di Obama, essendosi pubblicamente impegnato ad agire solo se Assad avesse impiegato armi chimiche (la cosiddetta arma atomica dei poveri, anche se l’uso dei gas sia stato proibito sin dal 1925), per non perdere la propria credibilità internazionale, se l’utilizzo di gas nervino fosse veramente documentato (e non come avvenuto nel marzo 2003 contro l’Iraq di Saddam Hussein), non potranno non intervenire. L’approvazione richiesta al Congresso americano è più una copertura per la persona di Obama che una probante argomentazione di diritto internazionale.

Pesa, infatti, agli americani sia il costo che i risultati di tre guerre “non vinte”. Nel 2001 ha inizio l’operazione afghana (per punire e neutralizzare gli autori degli attentati dell’11 settembre, legati al regime talebano di Kabul), dove, però, i talebani, benché estromessi dal potere, continuano oggi ad operare e a controllare parte del Paese. Nel 2003, l’Iraq di Saddam Hussein, dove, conquistata Bagdad e constatata l’assenza di armi di distruzione di massa, si assiste ora alla guerra tra sunniti e sciiti, già al potere. Nel 2011, la Libia, dove, dopo la caduta di Gheddafi, si è installata una situazione quasi di caos. Per altro, alcuni insinuano che, l’intervento Usa, anche se fosse limitato solo ai droni e ai cosiddetti missili intelligenti, senza invio di soldati statunitensi, sarebbe soprattutto diretto a dare un avvertimento all’Iran per la politica nucleare che persegue.

Nella sostanza, agli Usa importerebbe poco che le vittime siriane uccise con le armi convenzionali, in Siria, siano state di gran lunga più numerose (circa 100mila, secondo i dati Onu) rispetto a quelle uccise con i gas (circa 1.500). È vero che non si tratta solo di un problema di numero: anche una sola vittima innocente è una cosa esecrabile; ma si ha l’impressione che il rispetto dei diritti umani rimanga solo un ideale astratto e teorico, e venga invocato secondo le convenienze. E poi gli Usa dicendo di voler colpire, non hanno già dato un grosso vantaggio ai siriani? Quando si vogliono attaccare siti ritenuti strategici, infatti, non si dà un preavviso così lungo. La posizione italiana, infine, sembra apparire abbastanza velleitaria: senza la copertura dell’Onu, l’Italia non darà la possibilità di utilizzare le proprie basi.

Ma tutti, infatti, sanno che c’è, al Consiglio di Sicurezza Onu, il veto della Russia, protettrice della Siria che nel porto siriano di Tartus mantiene l’unica sua base navale del Mediterraneo, e della Cina. Non potendo contare sull’apporto dell’Onu, penalizzato dai veti russo e cinese, l’Italia, non coinvolta direttamente nelle lacerazioni locali, potrebbe avere un suo ruolo da giocare, facendosi promotrice di una politica di mediazione, di dialogo e di apertura verso tutti i Paesi dell’area interessata, cercando di coinvolgerli tutti, perché tutti egualmente interessati, senza escludere nessuno, includendo anche l’Iran, profittando della nuova atmosfera che vi si comincia a percepire. Solo coinvolgendo tutti si può sperare di poter contribuire alla pace. È anche incontrando e dialogando con i cosiddetti paesi “canaglia” che s’inizia a costruire la pace. Potrebbe essere un ruolo esaltante per l’Italia.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:45