Da qualche giorno a questa parte per l’amministrazione Obama è un susseguirsi di conferenze stampa con annunci di possibili attacchi immediati alla Siria di Bechar Al Assad. Più passa il tempo e sempre maggiori interrogativi nascono sul tipo e modalità di intervento. Alla versione USA di bombardamenti mirati, probabilmente volti ad annientare ogni capacità offensiva “pesante”, si contrappongono, in particolare, il quasi certo veto russo in ambito Consiglio di Sicurezza e la minaccia dell’Iran di allargare il conflitto interno siriano ad aree e Stati limitrofi. Inoltre, l’UE né asce al momento più confusa che mai con le singole nazioni schierate in ordine sparso e senza chiari intendimenti.
In tutto questo, sembrerà strano, finalmente l’Italia (la politica estera italiana è rimasta offuscata e oscura per oltre due anni), attraverso il Ministro Bonino, lancia un chiaro segnale di «intervento condizionato da una delibera delle Nazioni Unite». Giustissima soluzione! Nel complesso, però, il quadro internazionale ne esce impacciato, a disagio, in difficoltà e con molte perplessità sull’intervento armato. Il perché trova la sua motivazione principale nel forte sostegno che gli USA, insieme al Qatar e all’Arabia Saudita, hanno dato, e continuano a farlo, alle forze di opposizione siriane (il Consiglio Nazionale Siriano, CNS, con base in Turchia).
Tra queste, infatti, non si può ignorare la presenza di più di 16.000 Jihadisti salafiti, provenienti da Libia, Tunisia ed Egitto. Tra l’altro, i primi beneficiari di un mancato intervento USA sarebbero proprio i jihadisti, che sino a oggi hanno potuto mostrare la loro “animale ferocia” e l’assoluta mancanza di rispetto umano, solo trincerandosi dietro il mancato intervento delle forze occidentali, così come è stato per la Libia, l’Iraq e l’Afghanistan, che li ha portati ad agire solo spinti dalla loro “fede”: unico mezzo per adire a ristabilire l’Islam, in tutta l’area. È sempre più evidente che la società civile (o quello che resta!) siriana deve ahimè fare i conti con questi fanatici, che affermano con sempre maggiore insistenza la loro volontà verso l’imposizione di un nuovo regime islamista.
Ma è altrettanto evidente che la politica interventista USA (Iraq, Afghanistan, Libia) o l’alternativa del “leading from behind” attuata nell’intera area Mediterranea, hanno fatto acqua in maniera esorbitante. Senza dilungarci in analisi strategiche d’interrelazione con potenze regionali, quali possono essere Iran e Arabia Saudita e Qatar, con i riflessi cui l’UE, Italia in prima fila, ha dovuto sottostare per l’aumentato flusso di profughi sopraggiunto, basti osservare quanto in atto in Egitto e in Tunisia per rendersi conto del fallimento della politica di sicurezza degli USA nell’area. Ancora una volta, come sempre lo è stato in passato, gli USA propongono “cambiamenti” all’insegna della democrazia e della libertà, senza comprendere a quale interlocutore stanno parlando.
O, meglio ancora, non tenendo conto del retaggio culturale e del sistema di vita, se non giuridico-istituzionale, dei paesi oggetto d’intervento, completamente differente dalla cultura occidentale e, ancor di più, da quella USA. In particolare, per l’intero quadro geostrategico “arabo”, l’Egitto e la Tunisia, ma anche la Turchia sotto molti altri aspetti, ne stanno dando ampia dimostrazione, il retaggio culturale è un elemento imprescindibile su cui bisogna innestare qualsiasi forma di cambiamento. E allora come operare in Siria? Lo scenario, oltre alla già complessa presenza di Jihadisti, mostra altre forme di complessità. Innanzitutto gli scontri tra le differenti fazioni si sono allargati a tutto il territorio nazionale e, da entrambe le parti, si minaccia di estenderlo alla Giordania (lunga mano dell’Arabia Saudita e terra di maggiore presenza di sfollati siriani) e al Libano (da sempre nell’occhio di Assad per la realizzazione della grande Siria).
E’ quindi difficile ipotizzare un intervento “pacificatore” di un contingente di “pace” multinazionale, se non con un certo “accordo” tra le forze governative e l’opposizione. Eppure, questa appare la soluzione politico-diplomatica più accettabile, nell’intesa che l’eventuale intervento dovrà essere autorizzato dalle Nazioni Unite. Quindi, se ne dovrà prevedere la partecipazione, oltre che delle forze occidentali, anche dei Russi, se non addirittura dell’Iran. Anzi, non è da escludere un contingente di pace con la partecipazione anche di forze di paesi Musulmani. Da un punto di vista ideologico, infatti, la guerra civile in Siria, appare sempre più una guerra di religione: un fatto interno all’Islam.
Quindi, sebbene non sia possibile oggi ipotizzare un’evoluzione pacifica del conflitto lasciando il contradditorio alle sole fazioni (islamiche) che si fronteggiano, se non altro, che il fronte sunnita-sciita sia finalmente considerato nelle sue componenti (Lega Araba e Iran) per una forte rappresentanza nel processo di pace. Ancor prima dell’ipotizzato intervento ONU esiste, però, una condizionale ancor più vincolante: far sparire le forze “esterne” alla guerra civile propriamente detta. Cioè, sia gli Jihadisti salafiti sia Hezbollah dovrebbero, previo accordo tra le parti (Assad e CNS), sgomberare l’area e rientrare al più presto nei paesi di origine. Potrebbe questa essere la posizione italiana, se non quella europea, da proporre in sede prima Patto Atlantico e quindi ONU.
Anche in questo caso, bisognerà comunque pensare a come re-indirizzare i fanatici islamisti alle proprie nazioni di origine. Per Hezbollah non credo sussistano problemi, vista la potente mano iraniana che da sempre li governa. Per i salafiti, credo che un loro rientro in ambito “fratelli musulmani” egiziani o “salafiti” libici o tunisini, mostri da subito qualche problema. Visto che sia l’Egitto che i Tunisini hanno intenzione di dichiarare le controparti “fuorilegge” e “forze terroriste” legate a Al Qaeda! Un bel futuro problema anche per l’Europa.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:41