Nidal Hasan, jihadista non riconosciuto

Il 5 novembre 2009, il maggiore Nidal Malik Hasan, medico psichiatra dell’esercito degli Stati Uniti, aprì il fuoco contro i suoi colleghi a Fort Hood, gridando “Allah u Akhbar”, il grido di battaglia di tutti gli jihadisti. Ne assassinò 13 e ne ferì più di 30 prima di essere fermato e arrestato. Secondo il rapporto stilato dal Senato degli Stati Uniti, si è trattato del più grave atto di terrorismo sul suolo americano dall’11 settembre 2001. Il 28 agosto scorso, Nidal Malik Hasan è stato condannato a morte da una corte marziale statunitense. Sarà il primo militare a finire sul patibolo dal 1961.

Giustizia è fatta? Se la condanna a morte di Hasan, in ogni caso, non restituirà la vita alle sue 13 vittime, le conclusioni delle indagini e il testo del verdetto non riconoscono ai parenti dei caduti e ai sopravvissuti lo status che si meriterebbero: vittime della guerra al terrorismo. Il Dipartimento della Difesa, infatti, ha concluso che quella del 5 novembre 2009 fu “violenza sul lavoro” e non un’azione terrorista. La sentenza non ha condannato a morte Hasan per terrorismo, bensì per omicidio plurimo premeditato e tentato omicidio. Nidal Malik Hasan, musulmano praticante, frequentò anche la moschea Dar al Hijrah, dove conobbe il suo imam, Anwar al Awlaki, nel 2001. Allora quest’uomo, un americano di origini yemenite, era sconosciuto negli Stati Uniti e considerato dai più un “musulmano moderato”.

Cinque anni dopo, tuttavia, Awlaki avrebbe iniziato la sua carriera in Al Qaeda fino a diventarne il più famoso leader nello Yemen. Il 31 agosto del 2006 Awlaki venne arrestato in Yemen e da lì si “radicalizzò”, secondo la storiografia ufficiale statunitense. Per le autorità yemenite che lo arrestarono, però, era già “radicale” e vicino ad Al Qaeda. E probabilmente lo era anche nel suo periodo di vita statunitense, a quanto risulta da altre sue connessioni: Nawaf al Hazmi e Khalid al Mihdhar, due membri del commando dei dirottatori dell’11 settembre, erano assidui frequentatori della sua moschea. In ogni caso, Nidal Hasan contattò ancora Al Awlaki nel 2008, quando quest’ultimo era già “radicalizzato” anche secondo l’interpretazione storica più prudente.

Nel corso delle indagini su Hasan, tuttavia, non venne trovata alcuna “pistola fumante” nelle email che il maggiore dell’esercito e Al Awlaki si scambiarono. Si sarebbe trattato di uno scambio epistolare “coerente con l’attività di ricerca professionale” del maggiore Hasan. Nei due anni successivi Al Awlaki fu l’organizzatore e il principale ispiratore ideologico di tutti gli ultimi grandi tentativi di attentato sul suolo statunitense, fra cui il progetto di far saltare in aria un aereo di linea su Detroit, il 25 dicembre 2009, con una bomba nascosta nelle mutande dell’aspirante terrorista suicida Umar Faruk Abdulmutallab. L’azione di Fort Hood risale ad appena un mese e mezzo prima. In un’intervista rilasciata nello Yemen, però, Awlaki dichiarò di non aver nulla a che vedere con il massacro di Fort Hood, anche se, forse, Hasan aveva tratto ispirazione (per conto suo) dai suoi sermoni incendiari.

In ambito qaedista è sempre difficile stabilire quale sia una chiara filiazione e appartenenza, distinguendola da una semplice “ispirazione” o “imitazione”. Al Qaeda stessa non ha una struttura gerarchica, ma è costituita da una serie di individui e gruppi che agiscono in suo nome, come se fossero aziende in franchising. La principale missione di Al Qaeda, nonché il suo unico vero collante, è la lotta contro i governi “atei” e “apostati” nel nome dell’Islam, con il fine ultimo di rifondare un Califfato universale. Chiunque sia un musulmano sunnita, creda in questo progetto e preferisca i metodi della violenza terrorista a quelli della politica o della predicazione, può dirsi affiliato ad Al Qaeda. Se le indagini statunitensi su Hasan miravano a trovare un ordine o un accordo scritto fra il pluri-omicida e suoi eventuali “superiori” di Al Qaeda, i risultati sarebbero stati comunque nulli. Perché non è così che Al Qaeda agisce.

Ciò che sfugge completamente al controllo dell’anti-terrorismo, poi, è l’idea che possa esserci uno jihadismo “fai da te”, costituito da persone prive di precedenti penali, non affiliate ad alcuna rete del terrore, ma motivate ad uccidere nel nome del progetto islamista. I fratelli Tsarnaev, gli attentatori di Boston, rientrano in questa categoria, giusto per fare l’ultimo esempio. Nidal Hasan, indipendentemente dai suoi contatti con Al Awlaki, ha comunque lucidamente ucciso invocando Allah e ha poi dichiarato di aver fatto quel che ha fatto “per difendere i fratelli” in Afghanistan. Si considerava (e si considera tuttora) un combattente in una guerra di religione. Non riconoscendo il massacro di Fort Hood come atto di terrorismo, le autorità militari statunitensi dimostrano ancora una volta di voler identificare il nemico islamista in un’unica organizzazione (Al Qaeda) e non come una vasta ideologia universale, nel nome della quale milioni di persone sono pronte a combattere e uccidere.

Da un lato si può capire che l’esercito più potente del mondo non voglia ammettere troppo facilmente di essere stato infiltrato, per decenni, da uno jihadista determinato a combatterlo dall’interno. Dall’altro, però, è l’amministrazione Obama che ha reso chiaro, sin dal 2009, di intendere il terrorismo solo come Al Qaeda, come un’unica organizzazione che si può combattere e sconfiggere. Non capendo che questa guerra è, prima di tutto, un conflitto di idee e di religione. E, come tale, è trasversale e combattuto all’interno dei Paesi coinvolti.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:46