Dalla primavera araba alla palestra islamica

La ripresa dopo la pausa feriale restituisce agli accaldati lettori un quadro degli assetti internazionali ancora più instabile di quanto esso fosse già agli inizi di agosto… e della calura. Insomma, niente di nuovo sotto il sole. La crisi innescata dall’onda di protesta montata due anni orsono, nel quadrante nord africano/ mediorientale, ormai ha mostrato tutti i suoi limiti. Il tentativo “rivoluzionario”, in parte miope e in parte utopico, ispirato da un’assortita pattuglia di visionari con la mano ben stretta al portafoglio, può dirsi ampiamente fallito. In effetti l’agognata trasformazione c’è stata ma non nel senso voluto e vagheggiato dai suoi ispiratori occidentali. Altro che paradiso democratico, il nord Africa è diventato la palestra dell’islamismo più oltranzista dove, stando all’analisi dell’iracheno Basil Hussein riportata nel suo libro “Una nazione di odio e di sangue”, è innegabile che il livello d’odio nelle società arabe stia crescendo. La crisi dei vecchi regimi ha rappresentato per le correnti carsiche dell’islamismo politico l’occasione concreta per tentare la carta della riforma radicale delle società a prevalenza etnica araba.

L’azione politica dell’islamismo ha goduto inizialmente di insperata fortuna grazie all’inspiegabile (ai non addetti ai lavori) cambio di strategia dell’amministrazione americana rispetto alla politica delle alleanze seguita almeno negli ultimi cinquant’anni dai presidenti che si sono succeduti sul ponte di comando della Casa Bianca. I movimenti islamici però non hanno saputo cogliere l’occasione offerta loro di mostrare una capacità di leadership sulle rispettive società di riferimento. Avrebbero dovuto esercitare un’egemonia di tipo inclusivo, soprattutto rispetto alle minoranze religiose presenti nell’area, e più in generale, nei confronti delle istanze di modernizzazione manifestate dalle popolazioni, una volta che esse sono entrate in contatto con l’atmosfera di gran lunga più respirabile delle democrazie a impronta liberale. Invece si sono lasciati prendere la mano dalla voglia di integralismo, di annientamento del diverso, di negazione dell’altro. D’altro canto è impresa ardua pretendere tolleranza da chi pensa, e crede, che “spargendo sangue si entri in paradiso”. Dunque, la strada intrapresa è stata quella di una penetrazione nel sociale da attuare mediante un processo di costituzionalizzazione della Shari’a, la Legge di Dio.

A peggiorare le cose i nuovi governanti poco o nulla hanno fatto per affrontare i problemi di natura economico-sociale provocati dalla risacca della crisi planetaria degli scorsi anni, lasciando che ampie porzioni delle proprie platee scivolassero progressivamente nell’indigenza diffusa causata dall’impossibilità a produrre reddito sostenibile. Hanno preferito puntare sull’islamizzazione integrale della vita civile imponendo vincoli alla libertà individuale e pericolose sottrazioni di sovranità dalla sfera privata dei singoli individui a vantaggio di un controllo pubblico degli stili di vita più stringente. Ma i nuovi capi hanno fatto i conti senza l’oste. E l’oste, la società civile che ha sinceramente creduto nella possibilità di affermazione di democrazie aperte e liberali, deluso dai risultati e spaventato dai futuri scenari, in alcuni casi ha reagito, in altri si prepara a farlo.

In particolare, la vicenda egiziana può essere assunta a paradigma dell’ involuzione, fino al default, dell’esperienza della “primavera araba” a impronta islamica. Come è noto, il disastroso esito della gestione Morsi ha scatenato la reazione popolare che ne ha chiesto con forza la destituzione. L’organo di garanzia degli equilibri sociali sopravvissuto alla temperie rivoluzionaria del 2011, l’esercito, ha provveduto a dare seguito alla forte istanza popolare. Agli inizi del luglio scorso Morsi è stato rimosso dalla sua carica di presidente ed è stato posto agli arresti. Nel volgere di poche settimane, le gerarchie militari hanno garantito la nascita prima di una presidenza temporanea e, successivamente, di un governo di scopo che avesse come obiettivo primario quello di tirare fuori il Paese dalla gravissima situazione economica in cui la scellerata gestione di Morsi l’aveva precipitato. Ma i fratelli musulmani, ala politica del movimento islamico di sostegno alla presidenza Morsi, hanno reagito dichiarando la volontà di sfidare l’autorità dei militari a qualsiasi prezzo. Per questa ragione, sono cominciate le occupazioni delle moschee e delle piazze da parte dei manifestanti che chiedevano l’immediato rilascio del presidente Morsi e la sua reintegrazione nel ruolo di legittimo, perché regolarmente eletto, presidente dell’Egitto. I militari, dal canto loro, hanno risposto dando un tempo ragionevole ai rivoltosi per rientrare nei ranghi, interrompere la protesta di piazza e affidarsi al negoziato politico allo scopo di riavviare il dialogo con quella parte oggi maggioritaria dell’Egitto che aspira ad aprirsi a un futuro di benessere e di libertà non condizionato dall’oscurantismo ideologico e religioso veicolato dall’offerta politica dell’integralismo musulmano. La mano tesa dei militari è stata rifiutata. E’ scattata allora l’azione repressiva nei confronti degli insorgenti islamici. L’uso della forza non è mai questione semplice. Provoca morti, e disperazione. Per le strade della terra che fu un tempo dei faraoni è scorso molto sangue, e molto dolore. In compenso, l’obiettivo di riportare la società civile egiziana all’ordine e alla convivenza sostenibile è stato raggiunto con accettabile rapidità. A scopo preventivo i miltari hanno provveduto, nell’azione di contrasto, a decapitare, mediante un’ondata di arresti, il vertice politico della “fratellanza”, di modo da evitare che il movimento controinsurrezionale potesse rapidamente riorganizzarsi per tornare alla protesta violenta e al tentativo, per niente celato, di trascinare l’intero paese in una guerra civile dagli esiti incalcolabili.

Lo scontro, che ha precipitato l’Egitto sulla soglia di una guerra civile ancora oggi non scongiurata, ha offerto l’opportunità di vedere “dal vivo” tutto quanto, in termini di rapporti politici/strategici/economici, si muovesse sotto la coperta corta del novello radicalismo primaverile. In primo luogo, è riemersa la lotta storica, mai sopita, che contrappone i musulmani sunniti a quelli di fede sciita. Il linciaggio, avvenuto lo scorso giugno, di quattro musulmani di fede sciita, accusati di proselitismo religioso nel villaggio di Zawyat Abu Muslam nei pressi della città di Giza, ne è prova. La mano assassina che ha guidato la strage era quella di uno sceicco salafita. In secondo luogo, è apparsa con particolare chiarezza, la frattura che divide, dall’interno, la stessa componente sunnita. E’ infatti esplosa la guerra di posizione tra contrapposte fazioni spalleggiate dai grandi regimi dinastici dell’area del Golfo Persico.

All’inizio, grazie al sostegno dell’amministrazione Obama, è stato il turno del Qatar, e del suo uomo forte l’allora emiro Hamad bin Khalifa Al Thani, di prendere l’iniziativa per spingere alla caduta del regime di Hosni Mubarak, in luogo del quale avrebbe dovuto sorgere una repubblica islamica compatibile con gli equilibri di teatro nel complesso gioco mediorientale. Soluzione questa percepita come il fumo negli occhi dai regimi dinastici dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati regionali: gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait. La rivolta anti Morsi e il conseguente ristabilimento dell’ordine da parte dei militari di Al Sissi sono piacuti moltissimo ai monarchi del petrolio al punto che il governo saudita ha garantito ingenti finanziamenti all’attuale governo egiziano per sostenere la ripresa economica del Paese, in luogo degli aiuti economici che le cancellerie europee hanno minacciato di revocare, come misura ritorsiva per il pugno duro usato dai militari nei confronti dei seguaci del deposto presidente. In effetti, l’ establishment saudita considera il fenomeno dell’islamismo politico oltranzista, di cui la “fratellanza musulmana” è una versione locale, come un virus fortemente contaminante e letale per la stabilità dei tradizionali governi dinastici del mondo arabo. Per questa ragione sostenere l’iniziativa dei militari egiziani in funzione anti islamista rappresenta, per i sauditi e per le altre dinastie dell’area, un atto di autodifesa.

Altro aspetto reso evidente dalla crisi egiziana, è il comportamento dello Stato di Israele nella lettura dei recenti sviluppi della crisi cairota. Non vi è dubbio alcuno, e ciò è ampiamente comprensibile, che il governo di Gerusalemme, a cui non difetta la giusta dose di realismo politico, ne abbia salutato con favore l’evoluzione e, di conseguenza, il suo naturale epilogo. In particolare, è stato giudicato positivamente l’intervento dei militari nell’azione di contrasto alla proliferazione, accentuata negli anni della gestione Morsi, di cellule del fondamentalismo jihadista e di Al Qaeda nella regione di confine del Sinai. Israele oggi si sente maggiormente garantita dal controllo dei territori desertici da parte delle forze di sicurezza egiziane il cui compito principale è quello di impedire la stabilizzazione di collegamenti tra la rete terroristica e componenti operativi del movimento di Hamas, presente nella Striscia di Gaza. In proposito, la decisione delle autorità giudiziarie egiziane di motivare l’arresto di Morsi con l’accusa di spionaggio a favore di Hamas, è un chiaro segnale politico inviato ai leaders israeliani. E’ auspicabile che anche Israele, ora che ha ottenuto da Al Sissi la rassicurazione che il trattato di Camp David sarà rispettato, faccia la sua parte per sostenere la ripresa economica egiziana e, con essa, la definitiva archiviazione della pericolosa esperienza di governo dei Fratelli Musulmani, i quali nella considerazione sia delle forze laiche egiziane che della intera società israeliana, altri non sono che l’altra faccia della medaglia che raffigura Hamas.

Il defenestramento di Morsi ha avuto per Obama lo stesso impatto di un micidiale jab piazzato in pieno volto da quel contendente che si pensava fosse alle corde. Sono settimane che l’amministrazione americana continua a barcollare sulle proprie gambe mostrando lo smarrimento e la confusione tipica del pugile suonato. Ora, è prevedibile che, riordinate le idee, la Casa Bianca faccia sentire la sua voce attraverso una presa di posizione forte in una delle crisi aperte nel teatro mediorientale. Probabilmente sarà la Siria il luogo nel quale gli USA cercheranno, mediante un intervento armato diretto, di riprendere il controllo della situazione ampiamente sfuggita di mano. Il che potrebbe non essere un bene considerando la precarietà degli equilibri raggiunti nell’area. Un’azione di forza potrebbe determinare l’innesco di una serie di reazioni a catena, la prima delle quali, il coinvolgimento di Israele nel conflitto, fortemente desiderata e cercata dal principale alleato di Bashar Al Assad: l’Iran.

A frenare gli spiriti guerrieri vi sono almeno tre elementi che preoccupano il gigante americano. Il primo: la consapevolezza del fatto che gli oppositori interni di Al Assad, in maggioranza fondamentalisti islamici, non sono per niente amici degli USA, quindi aiutarli significherebbe nel concreto sostituire un nemico ad un altro. Afghanistan docet. Il secondo: lo spettro della guerra in Iraq che ancora si aggira sulla popolazione americana, con i suoi tributi in vite umane, con la scarsezza dei suoi pochi o nulli vantaggi, con l’aggravio dei suoi costi sul bilancio federale già in profondo rosso. Il terzo: la certezza che agire militarmente contro l’attuale governo siriano significherebbe una sfida aperta al suo “lord protettore”, la Russia. Onde evitare che la vicenda locale provochi un’escalation nei rapporti tra le due potenze, l’amministrazione Obama dovrebbe riconoscere un credito a Mosca per l’offesa subita, tale da essere esigibile in altri contesti di teatro. In concreto, il silenzio di Mosca sarà pagato a caro prezzo da qualcun altro che finora ha vissuto nella tranquilla certezza della protezione americana. Obama sa che i suoi concittadini faranno presto a chiedersi se valga la pena pagare tanto per quel pezzo di terra così lontano e così tanto povero di petrolio o di altri metalli preziosi.

L’ultimo elemento che emerge dall’evoluzione della crisi egiziana riguarda l’Europa. In effetti, ciò che è riscontrabile è l’assoluta inconsistenza di una linea politica europea autonoma. Ad essere maligni si potrebbe insinuare che la strategia della UE abbia avuto la sua trasfigurazione simbolica nell’inefficacia dell’azione diplomatica del suo alto rappresentante, Catherine Hashton. Tuttavia le riunioni d’urgenza dei ministri degli esteri dei paesi UE, oltre la rituale giaculatoria fatta di inutili lamentazioni e di improbabili minacce, hanno rispettatto ancora una volta il comandamento sovrano a cui finora ci si è rigidamente attenuti: decidere di non decidere. Cui prodest? Ci si chiederà. La risposta è semplice: serve ai piccoli o grandi potentati nazionali del vecchio continente per tenere le mani libere onde continuare, ciascuno per proprio conto e in nome dei propri interessi, ad agire in ordine sparso. Con queste premesse non è disfattismo politico chiedersi se vi sia ancora un futuro comune per i nostri Paesi, o se il tutto del processo di unificazione europea debba limitarsi a un mero strumento di regolazione dei flussi monetari e degli interessi di mercato. Ma questa è tutta un’altra storia.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:41