Il duro sentiero della transizione egiziana

La fase di instabilità che sta attraversando l’Egitto non tende a placarsi. I Fratelli Musulmani, respingendo tutti gli inviti a rientrare nei ranghi per consentire l’avvio di un dialogo costruttivo con il nuovo governo di transizione, hanno deciso di andare allo scontro frontale. Non è una buona cosa. Porterà altri morti, e tanta violenza. Il Ministero degli Interni egiziano, forse per dare un segnale di distensione dopo la visita al Cairo di Catherine Ashton, ha chiesto ai manifestanti di interrompere i sit in davanti alla moschea di Rabaa al Adawiya e in piazza El Nahda, assicurando per tutti un canale sicuro di uscita dalle zone della protesta. Come riferiscono fonti giornalistiche, il Ministero ha richiamato i manifestanti ad anteporre l’interesse nazionale davanti a ogni altra pretesa.

L’invito, purtroppo, è stato rispedito al mittente con un sovraccarico di arroganza, espressione diretta di quel fanatismo iscritto nel codice genetico anche dell’islamismo politico. Uno dei portavoce della fratellanza musulmana, Hany Salah Eddine, ha dichiarato all’italiana Ansa: « Non metteremo fine ai sit-in qualsiasi sia il sacrificio e non lasceremo le piazze da Alessandria ad Aswan malgrado le minacce». Non è questione di poco conto il fatto che continui la mobilitazione in strada. Certo, le piazze stracolme di manifestanti fanno il loro effetto. Incidono nella carne viva di una comunità al punto da segnarne i destini. Ma tutto questo serve e funziona fin quando dura lo stato di necessità in vista di una fuoriuscita, per via extraistituzionale, dalla crisi. In questo caso la prova di forza ha un senso se è sostenuta dalla parte che mette in campo una sequenza di colpi tale da mandare definitivamente al tappeto il competitor. C’è, però, un momento nel quale se un Paese vuole riprendere la strada della stabilità sia politica, sia economica, deve sapere porre un argine alla contrapposizione, con qualsiasi mezzo. Questo concetto gode di scarsa familiarità con l’odierno sentire profondo della nostra società. Noi italiani siamo propensi a credere, sbagliando, che la democrazia non possa avere anche la mano pesante, quando occorra. Al contrario, in collaudato stile democristiano, riteniamo che il dialogo debba protarsi fino al punto in cui, per scongiurare la paralisi sia inevitabile un compromesso tra i contendenti. Meglio se poi questo compromesso scontenta tutti.

Non è nella nostra natura pensare che, compiuti tutti i necessari passi per attivare un confronto, fallito ogni tentativo di composizione, si proceda senza indugi all’uso della forza. Mentre è quello che faranno a breve i militari egiziani. A buon diritto. È il prezzo che il debole governo di transizione, insediato di fresco, deve pagare per darsi una prospettiva di riuscita. La premessa è che la nuova leadership sia condizionata da un deficit di legittimazione popolare, non essendo passata al vaglio di libere lezioni. Ne consegue che sia inevitabile delegare il “lavoro sporco”della repressione delle occupazioni di piazza ai militari, in ragione del sostegno che essi hanno ricevuto direttamente dal popolo con la sottoscrizione di massa della petizione per la cacciata di Morsi. L’auspicio però resta quello che, alla fine, la scommessa giocata dal governo di transizione, a dispetto di tutti i bookmakers che lo davano perdente, venga vinta. E la scommessa punta sostanzialmente su tre priorità alle quali dare immediate risposte. La prima riguarda la crisi dell’economia del paese la quale rischia, se non fermata in tempo, di annientare la sopravvivenza fisica di una consistente massa di cittadini egiziani che si trovano in stato di grave indigenza.

 Certamente, il nuovo governo avrà da confrontarsi con la necessità di una politica salariale adeguata alla situazione generale del paese. In effetti, si tratterebbe solo della punta dell’iceberg giacché la crisi ruota prevalentemente sul problema centrale della maggiore redistribuzione della ricchezza. Tuttavia, non si può ignorare che, come per gli italiani anche per gli egiziani, debba valere l’elementare principio in base al quale la ricchezza prima la si genera e dopo si discute sul come sia più giusto o più conveniente distribuirla. Come ha spiegato Abdel-Moneim Said, direttore del giornale Al Masry Al Youm , al settimanale cairota Al-Ahram, l’industria in Egitto tarda a rimettersi in movimento, ma è indispensabile che riparta perché il Paese possa, successivamente, affrontare il nodo della dotazione infrastrutturale anche in chiave di rilancio dello sviluppo e dell’occupazione. In Sinai i residenti attendono che si definisca la questione dell’attribuzione della proprietà dei terreni disponibili alla coltivazione, e delle case annesse.

 La soluzione di questo problema sottrarrebbe materia prima al proselitismo dei gruppi del fondamentalismo islamico, molto attivi nella regione. Trasformare dei diseredati che avvertono pienamente il peso della loro frustrazione, in capaci produttori agricoli, proprietari esclusivi dei mezzi e dei beni di produzione, potrebbe costituire la prima scommessa vinta dalla nuova amministrazione sulla via della ripresa economica. La seconda priorità, direttamente connessa alla prima, riguarda il ripristino della legalità e della sicurezza nelle aree del paese maggiormente a rischio: il Sinai e la Valle del Nilo, in primo luogo. In proposito i militari hanno già iniziato con interventi mirati delle forze di sicurezza nella parte meridionale del Sinai. È stata l’operazione “Desert Storm”. Ma come è stato detto, le armi possono poco se non si accompagna all’azione di contrasto alla criminalità e al terrorismo, un’adeguata politica degli investimenti che dia speranza alla popolazione. Per impedire che un cittadino qualunque si trasformi in un pericoloso jihadista, pronto a tutto, è necessario che gli si dia qualcosa per cui provare successivamente il timore di perderla.

 E’, in qualche misura, il frutto avvelenato del benessere: una volta provato, non riesci a farne a meno. La terza priorità, obiettivamente quella di più complessa realizzazione, riguarda la ripresa delle riforme destinate a modificare in senso democratico l’architettura istituzionale dello Stato. Per le élite civili egiziane ciò che sta avvenendo dopo la cacciata di Morsi, non è un ritorno all’antico. Al contrario, tutto viene vissuto come una seconda onda rivoluzionaria che ha spazzato via i tentativi di piegare la “prima rivoluzione”, quella del 2011, ai disegni occulti del fondamentalismo politico/religioso targato fratelli musulmani. La capacità di ridare corpo alle norme che gli uomini della Fratellanza Musulmana volevano fossero solo simulacri di un ordine, quello democratico, inesistente se non sulla carta, rappresenta l’esatta misura del grado di successo che si dovrà riconoscere a questo neonato governo. Un piccolo vantaggio alla leadership impersonata dalla coppia Beblawi/ El Baradei, viene dalla lieve schiarita che si intravede nella posizione dell’alleato americano. Dopo che Obama si era reso inviso alla maggioranza degli egiziani per il suo smaccato appoggio a Morsi e ai suoi sostenitori, l’esperto Segretario di Stato USA, John Kerry, ha preso una posizione ufficiale sulla vicenda dell’intervento dei militari volto a destituire Morsi, presidente legittimamente eletto. Ha detto Kerry che l’iniziativa dei militari non può definirsi colpo di Stato, ma semplicemente atto per il ripristino della democrazia.

Ora, l’importanza di una simile dichiarazione rischia di passare inosservata, se non si comprende che, per la normativa interna USA, l’amministrazione americana non può fornire aiuti a paesi nei quali si siano verificati dei golpe. Quindi, non riconoscere la natura di colpo di stato all’atto compiuto da Al Sisi consente di tenere aperto il canale economico americano di sostegno alla disastrata economia della terra dei faraoni, in mancanza del quale la situazione precipiterebbe l’esausta popolazione egiziana in una spirale di crisi senza ritorno. In realtà, ciò che è apparso strano ai commentatori della stampa internazionale non è stato ciò che abbia detto Kerry, ma dove l’abbia detto. Non si comprende come mai abbia atteso il viaggio in Pakistan e il momento del confronto con il presidente di quel paese che fa della doppiezza e dell’ambiguità nelle relazioni internazionali la sua cifra distintiva, per dire che con le autorita civili e militari dell’Egitto non ci sono problemi, tanto meno dissenso sulle scelte compiute. Anzi. Che sia l’inizio di una virata della politica estera americana nel quadrante del Mediterraneo meridionale verso la ragionevolezza? Vedremo. Ho dei dubbi che sia così.

Lo scenario d’area quindi, lungi dall’essersi ricomposto, mostra segni di preoccupante inquietudine. Ciò dovrebbe tenere in viva apprensione le cancellerie occidentali. Tra queste anche il Ministero degli Esteri italiano dovrebbe far sentire la propria voce. In effetti, lo ha fatto... raccomandando ai nostri tutisti in partenza per l’Egitto, di non fare escursioni “fuori porta”, di starsene al sole all’interno dei villaggi, e, perché no, di mettersi la crema contro le scottature. Se, dopo che appena q ualche giorno fa la Ashton è stata lì a parlare a nome della UE, e quindi anche a nome nostro, tutto quello che sappiamo dire sono consigli per le vancanze, mi domando che senso abbia, al tempo della spending review, tenere in piedi per intero quel mastodonte che è la Farnesina. Le medesime cose la signora Barbara D’Urso avrebbe potuto dirle con altrettanta, se non maggiore, autorevolezza dal salotto di una delle sue trasmissioni televisive.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:07