Zimbabwe, cronaca di un esperimento fallito

Nel lontano Zimbabwe, nell’Africa meridionale, la democrazia ha fallito ancora. Le elezioni, in cui competevano il presidente in carica Robert Mugabe (che aspira a diventare capo dello Stato per la settima volta consecutiva) e Morgan Tsvangirai, premier in carica dal 2009, cooptato nel primo governo di coalizione della storia recente del Paese. Mugabe, 89 anni, ha già dichiarato la sua vittoria, convinto di arrivare vivo e al potere per il 30esimo anniversario della sua prima presidenza (1987). Tuttavia è battaglia sulla regolarità del voto. Mentre gli osservatori dell’Unione Africana sono convinti che si sia trattato di una tornata elettorale “libera e regolare” e altri osservatori di organizzazioni regionali abbiano premiato la natura pacifica del voto (contrariamente al duro scontro armato del 2009 che portò alla nascita del governo di coalizione), la più grande organizzazione locale di osservatori contesta la regolarità. E le prove che porta sono inquietanti.

Secondo la Zimbabwe Election Support Network (Zesn), infatti, nelle aree urbane, dove il consenso per Tsvangirai è più elevato, l’82% dei seggi è stato chiuso e gli elettori allontanati. Nelle aree rurale, gli aspiranti elettori sono stati bloccati nel 38% dei seggi. In pratica, a più di 1 milione di elettori (su un totale di circa 6 milioni di aventi diritto) sarebbe stato impedito di votare. Oltre ai metodi coercitivi, se ne sono registrati anche altri “persuasivi”. Nelle campagne, capi villaggio hanno organizzato militarmente gruppi di elettori analfabeti, facendoli marciare ai seggi con le schede pre-compilate. A quella minoranza di cittadini istruiti hanno fatto “confessare” di essere analfabeti, così da essere accompagnati e istruiti su chi votare: per il presidente Mugabe, ovviamente. Non solo: avrebbero votato anche parecchi morti. Non zombie, ovviamente, ma persone ancora iscritte nelle liste elettorali benché defunte da anni. Pare che le liste usate siano state rivelate solo alla vigilia del voto. E che risalgano al 1985, secondo la denuncia della Zesn. Lo Zimbabwe potrebbe apparire come uno dei tantissimi esempi di democrazia fallita nel continente africano.

Da questo punto di vista, non è un caso interessante. In realtà, poteva non essere uno Stato fallito. Poteva essere uno dei più liberi (e ricchi) Paesi dell’Africa. Ed è la chiara dimostrazione di come le ideologie della de-colonizzazione abbiano rovinato interi popoli. Quando si chiamava ancora Rhodesia ed era governato da “coloni” inglesi (in realtà nati e cresciuti in Rhodesia e discendenti da generazioni di inglesi che vivevano lì), lo Zimbabwe era un grande esportatore di prodotti agricoli, un Paese prospero e in piena crescita economica. Non era democratico, nel senso pieno del termine: il leader indipendentista Ian Smith, dopo aver dichiarato l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1965, diede il diritto di voto ai soli bianchi. Questa condizione, nella sua visione politica, non doveva essere permanente. Il suffragio universale avrebbe dovuto essere concesso anche ai neri, gradualmente e parallelamente a un processo di alfabetizzazione e assimilazione nella società. Censo e istruzione, più che l’appartenenza etnica, erano le discriminanti del voto. Le masse di analfabeti irreggimentati, come si son viste in queste elezioni, erano proprio ciò che Smith temeva di più.

Il suo progetto fallì per la combinazione di due circostanze storiche, entrambe esterne alla Rhodesia. Da un lato, dopo il ritiro dei portoghesi dal loro impero coloniale sudafricano e la conseguente indipendenza di Angola e Mozambico, i sovietici posero le basi per il loro impero, intervenendo direttamente in entrambi i nuovi Stati. La presenza sovietica incoraggiò la crescita dei movimenti ribelli neri di ispirazione marxisti leninisti anche in Rhodesia: lo Zanu (guidato da Mugabe e lo Zapu, direttamente collegato all’Urss. L’ideologizzazione dei neri ostacolò il graduale processo di democratizzazione della Rhodesia fino a fermarlo del tutto. Dall’altra parte, l’ideologia anti-imperialista imperante in tutte le democrazie occidentali, identificò in Ian Smith un arcaico residuo coloniale. La Gran Bretagna (che non lo perdonò mai dopo l’indipendenza) gli fece la guerra con mezzi diplomatici. Attaccato dal blocco occidentale e da quello orientale simultaneamente, il regime di Ian Smith resistette pure troppo. Nel 1979 concesse prime libere elezioni multi-razziali, che furono vinte dal vescovo Abel Muzorewa, nero e democratico. Avrebbe potuto essere il Mandela della Rhodesia. E invece il sogno finì subito. Le democrazie occidentali ormai avevano identificato i ribelli marxisti leninisti nella vera causa dell’emancipazione dei neri. Siccome sia lo Zanu che lo Zapu avevano boicottato le elezioni e continuavano la loro guerriglia contro il governo, le sanzioni internazionali contro la Rhodesia non furono rimosse. Gli inglesi, di fatto, obbligarono Ian Smith a indire di nuovo le elezioni. Nel 1980 vinse Mugabe, che divenne premier.

La Rhodesia divenne Zimbabwe. Ian Smith, prima di lasciare il potere, aveva chiesto garanzie che i diritti di proprietà venissero garantiti. Il nuovo regime, al contrario, li ha rispettati solo nella sua prima fase di potere, per poi passare all’espropriazione di tutti i bianchi, su basi puramente razziali. Smith si era anche ripromesso di salvaguardare le istituzioni della democrazia e si batté fin che poté, in parlamento, alla testa del suo Fronte Repubblicano, contro la degenerazione autoritaria di Mugabe. Niente da fare, anche qui: Mugabe, premier e poi presidente, trasformò rapidamente lo Zimbabwe in una dittatura. Quello che era uno dei Paesi più ricchi e in crescita dell’Africa, all’avanguardia nelle sue tecniche agricole, è ora uno degli ultimi Stati del mondo. Nonostante una timida ripresa economica negli ultimi quattro anni di governo di coalizione, le statistiche ufficiali parlano di un 68% di cittadini che vivono al di sotto della soglia di povertà. La disoccupazione è incalcolabile, l’ultimo rilevamento, nel 2009, indicava un 95% di senza lavoro. Il debito pubblico veleggia verso il 200% del Pil. Da un punto di vista economico, lo Zimbabwe è uno dei Paesi meno liberi del mondo, accomunabile a Cuba e alla Corea del Nord. Queste elezioni, già fallite ancor prima di conoscerne i risultati, sono solo l’ultimo segnale, in ordine di tempo, che lo Zimbabwe è ormai un buco nero. Non lo è a causa del presunto “neo-colonialismo” (a cui gli intellettuali di sinistra imputano tutti i mali d’Africa), ma proprio grazie all’anti-colonialismo militante.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:07