Israele-Palestina, si riparte da Camp David

Iniziati i nuovi colloqui sul Medio Oriente, a Washington DC. La tenacia di John Kerry, nuovo segretario di Stato, l’ha premiato. Ha voluto a tutti i costi che il dialogo diretto fra Israele e Palestina ricominciasse negli Stati Uniti e con sei viaggi diplomatici in cinque mesi, facendo la spola fra Gerusalemme, Ramallah e Amman, è riuscito nel suo intento. A condurre le danze del negoziato, per lo meno in questi colloqui preliminari, saranno un ex ambasciatore Usa in Israele, l’ex ministro degli Esteri israeliana (Tzipi Livni) e l’ex negoziatore degli accordi di Oslo Saeb Erekat. La grande presenza di “ex” obbliga a una serie di dolorosi déja vu nella storia mediorientale recente. Nel 2000, per esempio, Bill Clinton aveva arbitrato un negoziato diretto fra il presidente dell’Anp (allora Yasser Arafat) e il premier israeliano (allora il laburista Ehud Barak).

L’allineamento degli astri pareva perfetto: un presidente democratico, un premier laburista, un leader palestinese laico e rispettato (e premio Nobel per la pace). Barak accettò di cedere ai palestinesi il 98% dei territori richiesti, compresa Gerusalemme Est. Non si poteva chiedere di più. Arafat fece naufragare la trattativa. Si scoprì poco dopo, che aveva già preparato l’insurrezione, la Seconda Intifada. Il mondo dei media non capì: attribuì la causa dell’Intifada a una passeggiata simbolica del generale Ariel Sharon sulla spianata delle Moschee. Il Comitato di Oslo propose di ritirare il premio Nobel per la pace al presidente israeliano Shimon Peres, non quello ad Arafat, che non fu mai messo in discussione. Gli israeliani subirono più di 1000 vittime civili del terrorismo in poco meno di cinque anni. Il mondo dei media non capì l’Intifada e non comprese le cause del fallimento di Camp David. Non capì che il processo di pace si era “arenato”, perché in realtà non c’era mai stato. Gli israeliani, i più smaliziati, lo chiamavano “Oslo War”, la guerra di Oslo. Il periodo che andò dal 1993 al 2000 fu tutto un preparativo alla prossima guerra.

Fu in quel periodo che si prepararono le milizie suicide, le Brigate Martiri di Al Aqsa. Si rafforzò Hamas, che addestrò la sua branca militare. I territori dell’Autorità Palestinese, nata dagli accordi di Oslo, divennero una rampa di lancio per razzi e commando terroristici. Una guerra non si improvvisa: nel 2000, quando iniziò la campagna di attentati suicidi palestinesi nelle città israeliane, alle spalle c’erano anni di preparativi. Si scoprì (solo per chi lo volle scoprire) che quel “processo di Pace” altro non era che una tregua. Dovuta a condizioni di debolezza: nel 1991 l’Olp di Arafat aveva combattuto al fianco di Saddam Hussein, contro tutto il resto della Lega Araba. Persa la guerra, l’Olp non aveva più alcuna chance di vincere, perché si ritrovava senza alleati. Gli Stati Uniti, al contrario, presenti nella regione con nuove basi, nuovi partner e una guerra vinta alle spalle, erano al culmine della loro potenza, temuti o rispettati da tutti i leader arabi. Erano quelle le condizioni per intavolare una trattativa da posizioni di forza. Arafat non poteva far altro che rilanciare la sua immagine riciclandosi nel ruolo di uomo di pace. E così accettò i primi accordi.

Non appena poté farne a meno, nel 2000 li stracciò. E riprese la guerra. Gli Stati Uniti, nel 2000, si resero conto di avere ben poca influenza residua nella regione. Un anno dopo, nel 2001, con gli attentati di New York e Washington, si resero anche conto di non aver alcun controllo su una regione che costituiva la massima minaccia alla sicurezza nazionale. I neoconservatori, nel 2001, provarono a dare una risposta organica al problema, individuandone una causa fondamentale: sono i dittatori, le élite autocratiche arabe, all’origine della violenza, da un Arafat che fa il doppio gioco a Camp David, parlando di pace e preparando la guerra, a un Saddam Hussein che dichiara esplicitamente la sua ostilità agli Usa, passando per un regime sciita iraniano che parla di “riforme” e costruisce la bomba atomica. Questi erano i problemi individuati allora, a cui i neoconservatori cercarono di dare la risposta classica degli Usa, la stessa data all’Europa dal 1917 in avanti: saltare l’inutile dialogo con i dittatori, per incoraggiare le popolazioni locali a mettere in piedi governi democratici. A dodici anni di distanza, siamo di nuovo di fronte a una prova, come a Camp David.

Anche se Arafat non c’è più da otto anni, la classe dirigente dei suoi eredi è di nuovo spinta a negoziare a causa di condizioni esterne proibitive: rivoluzioni in Tunisia, Libia, Egitto, Siria, tutte le ex basi dell’Olp, i suoi sponsor principali, sono in fiamme. Gli Usa, tuttavia, non hanno la stessa influenza nella regione. Lo si vede da piccole e grandi cose: dai militari egiziani che non rispondono agli appelli di Obama e sparano sulla folla, ai siriani che si auto-infliggono 100mila morti nella guerra civile più sanguinosa del Medio Oriente. Le rivoluzioni che infiammano tutta la regione dal 2011 sono la conseguenza di lungo periodo dei neoconservatori: incoraggiando l’invasione dell’Iraq nel 2003 e la rimozione di Saddam Hussein, hanno aperto un vaso di Pandora che non si è mai più richiuso. Tuttavia i neoconservatori non ci sono più dal 2005. Dalla seconda amministrazione Bush in poi, sono stati culturalmente e politicamente maledetti (proprio a causa della guerra in Iraq e delle sue pesanti perdite) e condannati alla damnatio memoriae. A loro sono subentrati i consueti diplomatici “realisti” che preferiscono trattare solo con i dittatori. Ma che ora si ritrovano ad avere a che fare con un mondo che pullula di rivoluzioni. Questa schizofrenia politica ha causato una perdita di influenza e ascendente degli Stati Uniti nella regione. Come ai tempi di Camp David e forse anche peggio.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:05