La politica estera USA e il playmaker Qatar

Dicono che lo sport sia una metafora della vita. Se così fosse, allora ciò che sta accadendo in Medioriente ricorda molto da vicino una partita di pallacanestro. Di un basket, però, molto particolare perché fatto di almeno due novità. La prima di esse è nel vedere giocare, nel torneo mediorientale nord-africano, la massima rappresentativa USA, formata da Obama e dalla sua compagine di governo, con la maglia dell’islamismo politico contro coloro che sono stati gli alleati storici e gli interlocutori privilegiatidella superpotenza americana: l’ establishment degli alti ranghi militari. Per decenni gli USA hanno fornito alle gerarchie in armi, tutto ciò di cui avessero bisogno per giocare al meglio le proprie sfide nel campionato regionale. Pantaloncini, palloni, scarpette, coach e schemi di gioco. Hanno tracciato campi e posizionato canestri perché essi potessero esercitarsi nelle condizioni più favorevoli. Ora, fa un certo effetto vedere i vecchi sodali di un tempo scendere in campo dalla parte di quelli che sono stati tenuti a bada perché considerati sostanzialmente nemici.

La seconda novità che desta un certo effetto è nel vedere gli “States” non più in campo da soli a coprire tutti i ruoli, ma limitarsi, nonostante la gigantesca statura, a giocare spalle al canestro nel ruolo di pivot, la torre il cui principale compito è quello di stoppare gli avversari e liberare il gioco ai propri compagni. Che l’amministrazione americana non volesse fare tutto da sola era chiaro già da tempo, ma che rinunciasse a creare il gioco, con il quale tutti gli altri sodali e avversari avrebbero dovuto fare i conti, è forse la vera novità con cui confrontarsi nel prossimo futuro. Se questo è vero, allora sorge una curiosità: chi gioca nel ruolo di playmaker? È noto che questo fondamentale player ha caratteristiche decisamente peculiari. Solitamente è di statura relativamente piccola rispetto agli altri players. È però dotato di grande agilità di movimento, controlla la palla con entrambe le mani e ha una visione di gioco tale da poter tradurre i propri schemi offensivi in altrettante occasioni, per i propri compagni di squadra, di mettere a segno punti in partita. Per sua natura il playmaker ha una sfacciata doppiezza, nella conduzione tattica, grazie alla quale può servire un assist mentre volto e corpo sono rivolti ad altra parte del campo.

E i playmakers vengono valutati più per gli assist che creano che per i canestri che centrano. Sono veloci, questi playmakers che quando pensi di essergli addosso, sono già sgusciati via a organizzare una nuova azione offensiva. Se non l’amministrazione americana, chi copre, nel roster del team ”primavera araba”, un ruolo così decisivo? È un bel rompicapo, perché nel mondo delle relazioni internazionali purtroppo non è tutto chiaro e comprensibile come durante una partita di basket. E’ però possibile azzardare un’ipotesi. Se le caratteristiche del playmaker sono quelle descritte, allora si potrebbe immaginare che in campo, a costruire il gioco, ci sia il piccolo Qatar, in particolare la dinastia Al Thani che da tempo governa l’emirato. Fuori dalla metafora sportiva, resta il fatto che la minuscola potenza dell’area del golfo Persico è stata presente, con un ruolo molto attivo, giocato in sintonia con la presidenza francese di Sarkozy, nelle caduta dei regimi in Tunisia e Libia. Inoltre, ha avuto parte nel processo di transizione dell’ Egitto, dal regime di Mubarak all’affermazione dei fratelli musulani di Morsi.

Attualmente, al potere in Qatar vi è il giovane sceicco Tamim bin Hamad al Thani, succeduto al padre Hamad bin Khalifa Al Thani che lo scorso giugno ha abdicato dal trono in favore del figlio. Nonostante l’avvicendamento, la politica Qatarina è destinata a confermarsi sul doppio binario voluto dall’emiro uscente: con una mano favorire al massimo grado i rapporti con gli alleati americani e con i partner occidentali in genere, e, con l’altra mano, sostenere l’affermazione nel mondo arabo di una leadership complessiva orientata, se non espressamente diretta, dalle forze dell’islamismo politico, in tutte le sue declinazioni, da quelle moderate alle più radicali. Gli Al Thani hanno da loro grandi risorse finanziarie da muovere sui mercati internazionali, detengono il controllo dell’informazione nel mondo arabo grazie a quel formidabile network satellitare che è Al Jazeera, di cui sono padroni. Ma gli Al Thani sono anche eccellenti manovratori, abituati come sono a incrociare nelle acque del Golfo senza correre il rischio di restare schiacciati tra i due giganti dell’area, l’Arabia Saudita e l’Iran.

Sono disponibili padroni di casa, visto che ospitano, ad Al-Udeid, nei dintorni della capitale Doha, una megabase area USA, strategica negli equilibri dell’intera area. Sono ottimi negoziatori e sanno usare i propri argomenti con grande maestria se è vero che sono riusiti nella non facile impresa, fino a ieri giudicata impossibile, di convincere la potenza USA che islamismo e democrazie occidentali possono tranquillamente convivere e interagire nel comune interesse allo sviluppo. Non solo. Ma hanno convinto i creduli governi occidentali che la democrazia potesse essere un’opzione praticabile per le forze dall’area mediorientale/nord africana che si riconoscono nell’interpretazione socio-politica dell’islam. Una balla clamorosa che però ha dato i suoi frutti. Tuttavia riconoscere il ruolo centrale del Qatar nell’intera partita della “primavera araba” darebbe spiegazione a molte cose, oggi apparentemente oscure. A cominciare, ad esempio, dal gelo glaciale calato nei rapporti tra aministrazione americana e nuovo governo transitorio egiziano, imposto dalle autorità militari dopo la deposizione di Morsi. Troverebbe risposta anche la domanda posta da Stefano Magni nel suo “ Gli USA sempre più al fianco degli integralisti”, comparso su L’Opinione del 26 luglio scorso, circa la logica adoperata dal Dipartimento della Difesa americano nel decidere di confermare l’invio di una prima commessa di aerei caccia F-16 all’allora presidente- leader dei Fratelli Musulmani, in segno di cooperazione, salvo a sospendere immediatamente l’invio del restante stock di aerei promessi, ai militari che lo hanno defenestrato.

Forse che Obama intenda condizionare il futuro della complessa situazione egiziana alla ricomparsa sulla scena di Morsi? Se così fosse dovremmo desumere che l’astuta tattica elaborata dal piccolo playmaker di Doha abbia fatto breccia nel profondo della politica estera USA. C’è una guerra da combattere contro l’integralismo islamico. Dio non voglia che gli americani si facciano cogliere, nel momento delle scelte decisive, dalla parte sbagliata del campo. Nel frattempo, sebbene l’Egitto sia sull’orlo di quella guerra civile di cui molti osservatori sono stati fin troppo facili profeti, vi è da riscontrare, come i militari di Al Sisi stiano rimettendo le cose a posto in quelle zone periferiche a maggiore rischio di infiltrazione del terrorismo di matrice islamica. È notizia di questi giorni che è in corso nel Sinai un’operazione dell’esercito egiziano su larga scala. Il "Jerusalem Post" ha dato risalto all’iniziativa delle forze di sicurezza egiziane, denominata “Desert Storm”, salutandola come un’azione opportuna per riportare sotto controllo l’area interessata da attività terroristiche di gruppi jihadisti, particolarmente attivi dopo la cacciata di Morsi.

A scanso di equivoci, gli israeliani hanno posizionato, in via precauzionale, batterie di missili Iron Dome a difesa della città di confine di Eilat. Lo ha annunciato, nel corso di una visita alle truppe di stanza alla frontiera meridionale il ministro della difesa d’Israele, Moshe Yaron. La situazione, dunque, appare molto fluida per cui tutti gli scenari disegnati nelle ultime ore sono assolutamente aperti. Ad aumentare lo stato di tensione si aggiunge l’innalzamento della temperatura, strategico-diplomatica, nell’area collocata a ridosso della fascia nord-africana. La ripresa dei massacri nel Darfur, la regione di sud-ovest del Sudan, l’attesa per gli esiti elettorali nel Mali, vigilata dalle truppe francesi e dai caschi blu dell’ONU, dove però l’incognita dei tuareg e dei qaedisti è tutt’altro che risolta, rappresentano solo alcuni dei possibili inneschi di una crisi di vaste dimensioni che porrebbe in serio pericolo tutta l’area, con inevitabili ripercussioni sulle nostre frontiere. Per il momento si tratta solo di scenari ipotetici che non è detto si concretizzino. Tuttavia sarebbe di grande aiuto alla stabilità che i players impegnati sul campo riprendessero i loro ruoli originari, lasciando alle spalle pericolose aspirazioni avventuristiche. Lo ricordi , presidente Obama, la maglia rosso-blu della nazionale USA di basket gode ancora di un grande fascino, non fosse altro per la storia che rappresenta. Se la tenga stretta, quella maglia. E non si improvvisi in altre divise che certamente non le donano.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:15