Due senatori italiani, Paolo Romani e Antonio Razzi, erano presenti in Corea del Nord alla grande parata militare che celebrava il 60mo anniversario dell’armistizio con la Corea del Sud. Erano gli inviati della nostra missione parlamentare. Il senatore Razzi (PdL ed ex IdV) non ha mancato l’occasione di far parlare di sé, con la sua volontà dichiarata di riportare le due Coree al tavolo della pace. Paolo Romani (senatore PdL ed ex ministro) non è stato risparmiato dalla consueta raffica di critiche mediatiche per essere comparso “troppo vicino” al dittatore Kim Jong-un, sul palco d’onore, durante la parata. Romani ha poi specificato di “non poter certo applaudire” all’operato del regime stalinista. E ha anche dichiarato che Kim Jong-un gli è parso come un “leader che non comunica”. Tentare di rompere l’incomunicabilità del dittatore coreano, sta diventando la sfida per tanti altri politici (oltre a Razzi e Romano): l’ex presidente statunitense Jimmy Carter, che non è affatto sconosciuto dalle parti di Pyongyang, farà presto la sua visita nordcoreana. In questo caso, ha in interesse concreto: cercare di liberare il cittadino americano Kenneth Bae, condannato in via definitiva a 15 anni di gulag. La Corea del Sud non manda suoi esponenti politici, ma in compenso invia tonnellate di aiuti umanitari.

L’ultima tranche spedita ammonta a un valore di 8 milioni di dollari. Il problema è capire se tutta questa gran volontà di dialogo, mediazione e aiuto, risulti utile o controproducente. Il regime comunista nordcoreano ha ormai acquisito l’abitudine (almeno da 7 anni a questa parte) di montare successive crisi nucleari per ottenere aiuti alimentari e spazi diplomatici. Le minacce di scatenare una guerra atomica sono sempre più forti, tanto più forti quanti più aiuti Pyonguang cerca di ottenere. E’ bene ricordare che gli aiuti alimentari, per ora, non hanno fermato la carestia nordcoreana. Prima di tutto perché quest’ultima non è causata da fenomeni naturale, ma dalla stessa struttura del regime nordcoreano, che non lascia alcuno spazio alla libertà di produzione, né alla proprietà privata della terra, ma (come l’Urss ai tempi di Lenin e Stalin) pianifica la produzione, sottrae tutto ai contadini e poi redistribuisce tutto il cibo in base a propri criteri politici. Dirigenti, membri fedeli del partito e militari hanno (e avranno sempre, nel regime) la priorità nel ricevere cibo e risorse. Tutti gli altri arrivano dopo. Da ultimi, i nordcoreani (il numero è sconosciuto, ma pare sia più di un milione) che vivono nei gulag e sono costretti a lavorare come schiavi.

 Il problema, dunque, non è la mancanza di cibo, ma la struttura del regime, che spreca ogni tipo di risorsa. Se si volessero veramente aiutare i nordcoreani non si dovrebbero mandare aiuti alimentari ai burocrati fedeli a Kim Jong-un, ma li si dovrebbe semmai aiutare a liberarsi dalla dittatura. Considerando che tutte le parti coinvolte, almeno i sudcoreani, sono perfettamente consapevoli dell’inutilità degli aiuti alimentari, l’invio di cibo e medicinali viene visto come presupposto di negoziati e come elemento di stabilità. “Se loro minacciano di usare l’atomica se non hanno gli aiuti che vogliono, diamogli qualcosa e così staranno buoni”, è il pensiero dominante della diplomazia sudcoreana, giapponese e delle democrazie occidentali. Che fa il paio con il ragionamento: “Se loro vogliono solo spazi nel concerto internazionale, diamogli qualcosa e staranno buoni”. Nel migliore dei casi, chi fa questo ragionamento sta cedendo a un ricatto. Ma è difficile che il migliore dei casi sia anche quello vero. Il regime nordcoreano ha le spalle al muro. La sua missione rivoluzionaria è finita dal momento in cui l’Urss ha gettato la spugna. La sua unica alternativa è il collasso o la guerra. E questo, il regime, lo sa benissimo. Come tutti i regimi, quello nordcoreano mira a non collassare. Quindi sa che l’unica sua alternativa vera è quella di una guerra finale, a meno che non subentri un collasso improvviso e imprevisto ad impedirlo. La Corea del Nord continua a prepararsi alla guerra che verrà, dotandosi di testate atomiche e anche acquistando rimpiazzi delle sue vecchie armi convenzionali da Cuba (l’ultimo carico è stato fermato a Panama appena una settimana fa). Le sceneggiate montate da Kim Jong-un, quando il regime si dichiara pronto a tirare le bombe, sono solo fumo.

 L’arrosto è ben altro: una guerra potrebbe scoppiare di sorpresa, quando tutti giurerebbero che la situazione è tranquilla. Si materializzerebbe sotto forma di lanci totalmente imprevisti di armi atomiche contro le città vicine, o di bombe Emp nello spazio per creare un vasto blackout negli Usa, o di attacchi terroristici di grandi dimensioni. Il possibile collasso del regime è dunque l’unica via di salvezza per la Corea: l’alternativa è una guerra, molto asimmetrica, molto “non convenzionale” ed estremamente distruttiva. Vale la pena cercare di dare a Kim Jong-un la speranza, o l’illusione, di poter contare ancora qualcosa, permettendogli di realizzare il suo sogno distruttivo?

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:31