Obama insegna il suo modello economico

Dopo una stagione caratterizzata da (brutte) notizia sulla politica estera e sulla questione razziale, la Casa Bianca torna a concentrarsi sui temi economici. Il fallimento di Detroit lo impone. Prima di partire per le vacanze di agosto, il presidente Barack Obama ha tenuto ieri due discorsi in rapida successione, al Knox College di Galesburg (Illinois), all’Università Centrale del Missouri a Warrensburg (Missouri), mentre oggi farà il tris a Jacksonville, Florida. Come di consueto, Obama preferisce parlare ai giovani, agli studenti, ai professori, al suo elettorato privilegiato, insomma: le leve del futuro, coloro che plasmeranno l’America con la loro cultura. Quale cultura? Quella di Obama è una visione statalista dell’economia. Contrariamente ai vecchi socialisti, non vuole abbattere la cultura individualista che è alla base della civiltà anglosassone statunitense, ma “correggerla”.

Nel 2005, sempre a Galesburg, quando era un Senatore neo-eletto, aveva detto agli studenti: «La nostra supremazia economica dipende dall’iniziativa individuale, dal credo nel libero mercato. Ma dipende anche dall’attenzione che abbiamo l’uno nei confronti dell’altro, dall’idea che ciascuno di noi abbia un posto nel Paese, in cui viviamo tutti assieme e che ciascuno abbia diritto ad un’opportunità». Contrariamente al laburismo riformista di Clinton, non intende limitarsi a interventi di sostegno, ma ad un massiccio intervento statale per “potenziare la classe media” americana. Obama, anche nel suo discorso di 8 anni fa, aveva enfatizzato concetti anti-globalizzazione, sostenendo come l’internazionalizzazione del commercio e il conseguente indebolimento dei sindacati abbiano fatto perdere «l’ideale in base al quale chi lavora sodo possa trovare un buon posto, mantenere la sua famiglia, godere di una adeguata assistenza sanitaria e potersi ritirare dal lavoro con la speranza di vedere i suoi figli crescere in un futuro migliore».

Quello di Obama era il sogno del welfare degli anni ’40 e ’50, a cui il suo principale ispiratore economico, Paul Krugman, vorrebbe tornare senza indugio. La globalizzazione, in effetti, ha messo in crisi quel sistema. Capita che alcune aziende, per evitare di dover donare i due terzi di quel che guadagnano al mantenimento del welfare, decidano di aprire altrove. E capita anche che i consumatori, invece di spendere un capitale per conquistare beni prodotti da lavoratori sindacalizzati o aziende sussidiate, preferiscano spendere molto meno andando dal vicino negozietto cinese o indiano. Si sa: questo egoismo dei moderni… Per tornare al modello del welfare sognato negli anni ’40 e ’50, quando tutto il mondo, tranne l’America, era stato devastato da cinque anni di guerra mondiale, Barack Obama ha finora proceduto su due piani: vietando e pagando. Vietando: ponendo paletti sempre più rigidi agli accordi di libero scambio. L’America di Obama è molto più protezionista rispetto a quella che era dominata dai “conservatori” ai tempi di George W. Bush. Pagando: il primo piano di stimolo economico, l’aiuto ai giganti dell’industria automobilistica (proprio in quella Detroit che è appena fallita) e il piano per il rilancio del lavoro, sono tutti basati su sussidi pubblici. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Con l’economia che stenta a ripartire, gli Usa hanno ancora il tasso di disoccupazione più elevato nella storia del dopoguerra. Proprio perché Obama si rivolge alla classe media, si è posto il vincolo di non alzare le tasse, se non ai “ricchi”, categoria che viene definita come l’1% della popolazione, anche se produce gran parte del Pil nazionale. Per sostenere il peso crescente della spesa pubblica, Obama contrae debiti: il debito pubblico è giunto a 16mila miliardi di dollari, più di un terzo in più rispetto a quello che aveva ereditato da George W. Bush. Per giustificare questa politica, Paul Krugman scrive (e Obama crede) che il debito “non è un problema”. Il tour universitario di Obama serve soprattutto a questo: perorare la causa per la sua prossima battaglia al Congresso, il prossimo autunno, per alzare ancora una volta la soglia del debito pubblico prevista dalla legge. Perché il debito “non è un problema”. Chissà perché, allora, Detroit (governata da sindaci democratici, come Obama, dal 1962) con un debito da 18,5 miliardi di dollari è collassata divenendo una metropoli abbandonata, da zombie movie, con il 40% delle sue strade al buio, poca pulizia, pochi pompieri, poche ambulanze, un quarto dei suoi cittadini emigrati, strade dove dominano criminali di tutti i tipi. Quello è l’esito delle politiche di “deficit spending”. La stessa predicata e praticata da Obama.

 

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:49