La lezione americana di

In questi ultimi tempi mi è capitato di essere fortemente critico nei confronti del modus operandi in politica estera del presidente Obama. Questa volta, però, bisogna fare tanto di cappello all’amministrazione americana per la “lectio magistralis” su come si difende l’interesse nazionale a qualsiasi latitudine, impartita mediante una sberla piazzata in pieno volto all’inerme governo italiano. L’occasione è stata la vicenda del rientro forzato da Panama dell’agente della C.I.A. Robert Seldon Lady, in arte “Mister Bob”, capocentro nel 2003 della Agenzia di Intelligence a Milano. Il governo del nostro Paese ne ha annunciato l’arresto. Seldon Lady avrebbe dovuto scontare una pena a nove anni di reclusione irrogata dalla Corte di Appello del Tribunale di Milano che lo ha condannato,nel 2010, per il sequestro dell’ Imam di Milano Hassan Mustafa Osama Nasr, noto alla cronache come Abu Omar. Il caso è stato di quelli al calor bianco. Il 17 febbraio 2003, l’Imam è stato prelevato con la forza da dieci agenti CIA, in una strada di Milano. E’ stato trasportato prima segretamente alla base USA di Aviano e successivamente trasferito in Egitto, dove avrebbe subito torture e sevizie. Solo dopo un anno Abu Omar viene rilasciato, anche se poi è arrestato di nuovo delle autorità di polizia egiziane. Nel 2007 la definitiva liberazione.

Nonostante i tentativi di accomodamento proposti, in forma riservata, dalla stessa Agenzia americana, Abu Omar decide di rivolgersi all’autorità giudiziaria italiana per avere giustizia per il trattamento subìto. Secondo l’amministrazione americana, invece, si sarebbe trattata di una legittima operazione di contrasto preventivo al terrorismo internazionale, condotta fuori dei confini di Stato vista la caratura di Abu Omar, sospettato di essere un terrorista e di avere legami forti con Al Qaeda. I giudici italiani sono stati di altro avviso, sebbene fosse già in corso in Italia un’indagine su Abu Omar, sospettato proprio di attività terroristiche. Le nostre corti hanno valutato l’azione di intelligence alla stregua di un sequestro di persona, perciò fattispecie di reato grave, e in tal senso hanno pronunciato la sentenza di condanna, sia in primo grado che in grado d’appello, a carico degli autori dell’atto criminoso.

Oltre a numerosi agenti americani sono stati condannati anche i vertici dei Servizi segreti italiani, accusati di aver offerto assistenza e copertura ai colleghi americani per la riuscita dell’operazione. Al termine dei diversi gradi di giudizio, la Corte di Cassazione nel settembre dello scorso anno ha confermato in via definitiva la condanna per Seldon Lady e altri 22 agenti C.I.A. Dunque, l’ordine di cattura internazionale emesso a carico di “ Mister Bob” è, dal punto di vista del diritto internazionale, del tutto legittimo. Legittimo, ma non eseguibile. Perché molto più della forza del diritto interno di uno Stato sovrano valgono le ragioni di quella Nazione che fa della difesa a oltranza dei suoi appartenenti la causa prima di ogni comportamento e di ogni azione posta in essere al di fuori dei propri confini. Quindi, senza troppe chiacchiere, senza che i media di quel Paese si stracciassero le vesti per la denegata giustizia, per il Diritto offeso, in meno di 24 ore l’amministrazione americana ha fatto valere il suo peso politico -strategico sul piccolo Stato di Panama, invitando le autorità di polizia a consegnare immediatamente alla sua patria, da uomo libero, l’agente fermato. Così, in tutta fretta, Seldon Lady ha preso il volo. Destinazione Stati Uniti. E la giustizia italiana? Italiani chi? Si saranno chiesti con qualche sarcasmo i funzionari del Dipartimento di Stato che da Washington colloquiavano con gli omologhi panamensi. Dalle autorità di governo del nostro Paese soltanto un laconico: “Ne prendiamo atto”. E che altro vuoi fare? Dopo aver beccatto una sberla così?

Ora, sarebbe fin troppo facile infierire sulla inconsistenza dei governi italiani succedutisi dal tragico epilogo, per il prestigio internazionale dell’Italia, della vicenda libica. Sembrerebbe a dir poco scontato affermare che ciò accade perché il nostro Paese, sullo scacchiere mondiale, non ha più alcun peso politico. Se, per misurare la distanza dallo zero del grado di considerazione dell’Italia sulla scena internazionale, ci attardassimo in un elementare gioco di sovrapposizione di questa vicenda a quelle analoghe dei marò del “San Marco”, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, illegittimamente trattenuti in India e a quella dell’”eroe dei due mondi” e pluriomicida Cesare Battisti, la cui estradizione è stata negata dal Brasile con motivazioni preoccupanti, se non fossero volgarmente ridicole, fino al caso di Enrico Forti, detenuto da 12 anni proprio negli USA, sulla base di una condanna seguita a un processo che ha sollevato molti dubbi e interrogativi in ordine alla sua compatibilità con gli standard di un paese democratico nel quale vigono i principi dello stato di Diritto, saremmo annichiliti dagli esiti della misurazione. E non andremmo lontani. Sarebbe forse più utile cercare di comprendere che lezione ci giunge, come Paese, dalla vicenda ultima narrata.

La gestione americana del “non- caso” Seldon Lady, rinvia al punto di snodo di una concreta riflessione sulla reale dimensione politico-strategica di un’entità statuale quale oggi è l’Italia. La questione ruota su una specifica domanda: ciò che il governo realizza per garantire la sicurezza dei propri cittadini, ovunque essi siano nel mondo, è insindacabile o le norme e gli ordinamenti degli altri stati possono porre un argine a tale diritto? In concreto, il diritto alla sicurezza è preminente anche rispetto alla difesa degli elementari diritti della persona umana? Una comunità che si connota per il forte senso identitario che lega i suoi membri, risponde affermativamente al quesito. Negli USA, in particolare, vige una regola non scritta che, però, ha fatto grande quel paese nella Storia: “nessuno dei nostri deve essere lasciato indietro”. Se non si comprende questa elementare, ma fondante, affermazione di valore, mai si potrà decodificare il messaggio contenuto nella ferma presa di posizione dell’amministrazione americana circa l’operato dei propri uomini e delle proprie strutture strategiche in azione, a viso aperto o sotto copertura, in tutto il mondo.

Diversamente, uno Stato nel quale il senso di appartenenza è da tempo smarrito, che poggia su una comunità che non si ritrova nel porre la difesa dell’identità sopra a ogni cosa, che non sa dire “my country, right or wrong”, può essere sì una nobile patria dei diritti, di tutti i diritti possibili, ma ha smesso di essere una nazione, il cui richiamo possa catalizzare l’impegno e la passione di qualsiasi suo appartenente, ovunque si trovi, qualsiasi ruolo svolga. Una nazione si riconosce per la capacità di subordinare gli interessi di parte a un più alto scopo che è la difesa dell’interesse generale, che è di tutti. Lo Stato, che incarna quel principio spirituale, è pienamente legittimato a difenderlo, quell’interesse, ovunque e comunque, anche se ciò dovesse contrastare la lettera di certe altisonanti pronunce morali.

La vicenda Seldon Lady finisce inevitabilmente per incrociare quello che Carlo Emilio Gadda titolerebbe “quer pasticciaccio brutto der Viminale”, per noi la mesta vicenda dell’espulsione della signora Alma Shalabayeva e della sua figliola. Anche in quest’occasione l’Italia si è limitata ad essere terreno operativo per agenti e apparati di altri Stati i quali perseguono i loro legittimi interessi. E’ vero che, solo grazie a questa sconcertante vicenda molti nostri concittadini hanno appreso dell’esistenza di uno Stato che si chiama Kazakistan, magari non hanno ben compreso dove si trovi sulla carta geografica. Sono venuti a conoscenza del fatto che i rappresentanti di quella lontana terra si muovono nei nostri palazzi romani, diciamo, con una certa disinvoltura. Non capiscono però i nostri concittadini perché ciò sia possibile. Cosa è che giustifica tanta familiarità tra l’italia e il Kazakistan al punto che i rapprentanti del governo kazako si sentono in diritto di interagire direttamente con gli apparati di sicurezza italiani senza passare per gli ordinari canali diplomatici della Farnesina? La risposta è alla portata della comprensione dell’uomo della strada: ci sono interessi economici, grandi interessi che giustificano tanta familiarità. E questo è negativo? No, se non fosse per il fatto che il nostro governo uno straccio di rapporto privilegiato, in un contesto internazionale fortemente competitivo, proprio non riesce a tenerselo. E’ chiaro che la storia della signora Shalabayeva, non si prefigurava come una bella pagina scritta nel libro delle relazioni tra Stati. L’Italia fa affari con il Kazakistan, l’antica terra dei cosacchi, cioè trae profitto dai rapporti commerciali di scambio, in particolare dallo sfruttamento delle enormi riserve di gas e di idrocarburi di cui è ricco il sottosuolo kazako. Inoltre, grazie a un recente accordo intergovernativo, è stata incrementata la cooperazione tra i due Stati sul fronte degli armamenti e dei sistemi di comunicazione. Nel 2014 il Kazakistan sarà il corridoio di uscita del contingente italiano di stanza in Afghanistan, nella fase finale del ritiro per la fine della missione. Si può affermare, dunque, che tra i due Stati esiste una forte partnership, sostenuta da una solida amicizia tra i rispettivi governi. Ma come si sa le amicizie per durare vanno nutrite.

Ora, il vecchio presidente Kazako, Nursultan Nazarbayev, temendo pericolosi contraccolpi al suo potere, di riflesso alla instabilità dell’area mediorientale scossa dall’onda lunga dell’islamismo radicale, protagonista della “primavera araba” ed avendo una popolazione al 75% composta da musulmani, ha adottato una tattica d’interdizione alla radice di qualsiasi tentativo che abbia come obiettivo l’attacco al suo potere. Tra i nemici dichiarati di Nazarbayev vi è Muxtar Äblyazov, non proprio limpida figura di oppositore al regime. Äblyazov rappresenta una spina nel fianco del Presidente Nazarbayev, soprattutto per la sua capacità di mettere insieme interessi affaristici e legami politici oltre l’angusto spazio dei confini kazaki. Äblyazov è riparato a Londra, e benché sia ricercato dall’Interpol per alcuni guai con la giustizia inglese, da qualche tempo frequenta l’Italia, dove sua moglie, Alma Shalabayeva, e sua figlia risiedono stabilmente, sebbene sotto falsa identità. A questo punto scatta l’idea. Per condizionare i movimenti di Äblyazov, si rende necessario avere in ostaggio la sua famiglia. E’ sufficiente chiedere al paese amico, l’Italia, una collaborazione per risolvere la faccenda. E la collaborazione arriva puntuale, anche se alla solita maniera italiana: risolviamo il problema, facendo finta di non vedere. Tutto bene dunque, se non fosse per il fatto che al primo stornir di foglie, una denuncia dell’operazione da parte di una ONG,l’ International Bureau for Human Rights, ripresa in maniera non disinteressata dal Financial Times, apriti cielo! si scatena l’inferno, e altrettanto puntuale arriva la sbracatura dell’autorità italiana che si affretta a negare di essere a conoscenza della vicenda.

Certamente la cosa è puteolente, ma una nazione che abbia a cuore i propri interessi può anche farsi carico di qualche evento che si consuma in quella zona grigia, nella quale ogni Stato che si rispetti agisce senza clamori per pareggiare i conti con qualche antagonista, o per scambiarsi favori con altri Paesi del genere non confessabile alle rispettive pubbliche opinioni. Invece tutti a fare lo scaricabarile, alla ricerca di capri espiatori disponibili. Che pena. Alla fine si arriverà a dire, come in un romanzo di Hermann Hesse, che il “grande vecchio” dell’operazione, colui che ha mosso le pedine perché i kazaki avessero soddisfazione sulla Shalabayeva, altri non era che l’usciere del Viminale, il Gran Maestro dell’Ordine dei cospiratori. Il ministro Alfano ha la faccia da brava persona, ma la sua autodifesa è stata lo specchio fedele della crisi d’identità che il nostro Paese sta attraversando. Quale altro suono avrebbero avuto differenti parole. Forse le nostre coscienze sarebbero state felicemente risvegliate se avessimo udito dire: “Ciò che è accaduto è a nostra conoscenza, le ragioni che ci hanno indotto ad aderire alla richiesta kazaka trovano sostegno nella difesa dei nostri superiori interessi nazionali. Per questo assumiamo la responsabilità per l’accaduto e vigiliamo presso le autorità kazake affinché alla signora Shalabayeva e alla sua figliola, non venga fatto del male. I particolari dell’operazione non possono essere resi noti perché coperti da segreto di Sato”. Se fossero state pronunciate dai più alti scranni analoghe parole, saremmo stati in un’altra realtà e la lezione di “ Mister Bob” sarebbe servita. Purtroppo la storia non è fatta di “se”. Ma, come sosteneva qualcuno, i “se” aiutano a capire la Storia. Magari anche l’oggi. Speriamo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:42