Kazakistan, perché rispedire i dissidenti?

Un nuovo rapporto pubblicato da Amnesty International fa luce su come vengono trattati i prigionieri in Kazakistan. Il Paese in cui la polizia italiana ha rispedito la moglie e la figlia del dissidente Mukhtar Ablyazov, tratta i suoi carcerati come ai peggiori tempi dell’Unione Sovietica: confessioni estorte con la tortura, prigionieri costretti ad accusarsi a vicenda, abusi sistematici, nessuna cura medica . Il rapporto di Amnesty International si concentra soprattutto su un caso del 2011, quello della ribellione scoppiata a Zhanaozen, centro petrolifero nell’ovest kazako, vicino alle rive del Mar Caspio, repressa con estrema brutalità dalla polizia. Come spiega a Radio Free Europe David Diaz-Jogeix, vicedirettore del programma di Amnesty per l’Asia Centrale: “Quel che Amnesty International ha trovato a Zhanaozen è un uso piuttosto sistematico della tortura e di altri maltrattamenti. L’inchiesta è partita da persone che, durante i processi, hanno lamentato di essere state torturate, così come di testimoni della pubblica accusa che hanno ritrattato le loro confessioni e dichiarazioni contro un imputato. Quel che abbiamo raccolto sono accuse abbastanza dimostrabili su persone sottoposte a pestaggi. Le guardie saltavano su di loro.

I prigionieri erano denudati e trattenuti nel cortile della stazione di polizia con temperatura sotto zero. Acqua gelata era tirata su di loro, per infliggere ancora più dolore”. Zhanaozen, a quanto risulta dal rapporto Amnesty, non è un’eccezione. “Abbiamo trattato altri casi che ci sono stati segnalati – spiega Diaz-Jogeix – Riguardano non solo torture e maltrattamenti, ma anche i diritti più basilari dei prigionieri. Abbiamo diversi allarmi sull’abuso dell’isolamento carcerario, in particolar modo vorremmo richiamare l’attenzione sul caso del poeta kazako Aron Atabek, che ha passato un terzo del suo periodo di detenzione in isolamento, in condizioni molto dure e malsane. Richiamiamo l’attenzione anche sulla negazione dei diritti dei prigionieri, protetti dalle convenzioni internazionali. In alcuni casi, le visite dei familiari sono strettamente limitate. Abbiamo anche il caso particolare di Zhasulan Suleimanov, costretto sulla sedia a rotelle perché paraplegico, che ha trascorso gran parte del suo periodo di detenzione in isolamento, senza adeguate cure mediche”. Il dissidente Mukhtar Ablyazov, in caso di ritorno in Kazakistan, potrebbe andare incontro a questa fine.

La polizia italiana, il 29 maggio scorso, avrebbe voluto arrestarlo e rispedirlo in patria, perché latitante e segnalato sui bollettini Interpol, ricercato per truffa (dalla Gran Bretagna) e appropriazione indebita (dal Kazakistan). L’Italia, però, non può rispedire in patria un ricercato, se nel suo Paese d’origine è praticata la tortura. La Convenzione di New York, di cui Roma è firmataria, lo dice chiaramente: “Nessuno Stato Parte espellerà, respingerà o estraderà una persona verso un altro Stato nel quale vi siano seri motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta alla tortura” (articolo 3). Ablyazov non è stato trovato nel blitz effettuato dalla polizia italiana a Casal Palocco. Sua moglie Alma e la figlia Alua (6 anni) però erano in casa. Arrestate il 29 maggio, i loro documenti non risultavano validi. Il 31 maggio, appena due giorni dopo (alla faccia della lentezza burocratica) erano già imbarcate su un aereo privato diretto ad Astana, capitale del Kazakistan. Nel suo question time di mercoledì, il governo Letta ha promesso di fare chiarezza sulla vicenda. L’attendiamo.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:36