L’Egitto ha bisogno di un governo vero

Tutto ciò di cui oggi ha disperato bisogno il popolo egiziano è di vedere insediato un governo. Per quanto la scelta dei militari di interrompere il corso democratico delle istituzioni elettive abbia significato un messaggio chiaro all’indirizzo della comunità internazionale che sta a guardare col fiato sospeso all’evolversi della crisi, è indispensabile che sia un esecutivo dotato di un sufficiente margine di credibilità a sbloccare lo stallo indotto dalla contrapposizione frontale tra ribelli, tamarrud, da una parte e lealisti islamici pro Morsi dall’altra.

Non esiste alternativa all’ipotesi di governo di transizione se non quella della guerra civile, nella quale precipiterebbe un paese ricco di 82,5 milioni di anime e che ha finora rappresentato uno dei pilastri dell’equilibrio politico-strategico in tutto il quadrante mediorientale. È chiaro che un governo che nasca sulla scorta di premesse tanto problematiche deve puntare esclusivamente a colpire gli obiettivi di finanza pubblica e di ripresa economica del Paese, mettendo da parte ogni velleità in ordine alla ridefinizione dell’architettura istituzionale, manomessa da Morsi e dai suoi sostenitori in danno di quel pluralismo politico e religioso che era stato premessa fondante della nuova democrazia partorita dalla “primavera araba”. In questo momento il primo passo che spetta all’esecutivo è di aprire un negoziato con la galassia che ha sostenuto Morsi onde trovare punti di accordo in cambio della rinuncia, da parte dei sostenitori della Fratellanza Musulmana, alla contrapposizione armata al nuovo governo del Paese.

Così come i Fratelli Musulmani devono convincersi che non accettare il dialogo condurrebbe inevitabilmente a un suicidio collettivo, non soltanto in senso metaforico. Se il primo ministro designato non riuscirà in questo tentativo, propedeutico a qualsiasi altra iniziativa politica interna ed esterna all’Egitto, la parola passerà all’esercito e allora dovremo rassegnarci ad aggiornare, di ora in ora, la macabra contabilità dei morti, vittime di una durissima repressione i cui effetti si ripercuoteranno, per una sorta di reazione a catena, in tutta l’area mediorientale e nord-africana. La scelta, caduta inizialmente su Mohamed El Baradei, uomo stimato dentro e fuori i confini del paese, Premio Nobel per il suo impegno internazionale sul fronte della pace, non poteva essere sostenuta in quanto lo stesso El Baradei si è sempre mostrato come uomo di parte, schierato a difesa della sua linea politica, in netta opposizione con le fazioni islamiche. Non a caso i salafiti di Al Nour lo accusano di essere uomo degli americani.

Mai come ora il capo del governo non può essere, e neanche deve apparire, uomo di una parte. D’altro canto non va dimenticato che nel rassemblement degli oppositori a Morsi sono stati presenti non solo i laici, aspiranti alla democrazia compiuta, ma anche gli islamici del partito salafita Al Nour, dichiaratamente fondamentalista. Questi ultimi sono stati spinti a combattere Morsi dopo averlo appoggiato alle elezioni presidenziali, in primo luogo, per questioni legate all’impoverimento economico del paese e, in secondo luogo, per non aver visto pienamente realizzato il progetto di repubblica islamica, a sfondo integralista, che resta la “mission” della loro azione politica. Nelle ultime ore è circolato un altro prestigioso nome sul quale il presidente ad interim Adly Mansour vorrebbe puntare. Si tratta di Ziad Bahaa El–Din, avvocato, economista di estrazione politica socialdemocratica, che ha svolto incarichi di rilievo internazionale nell’ambito delle istituzioni economico-finanziarie.

El–Din è certamente gradito alle cancellerie occidentali e sulle sue idee di politica economica non si hanno molti dubbi visto che nel suo curriculum fa bella mostra un Ph D (Philosophical Doctor) in Diritto finanziario, conseguito alla London School of Economics nel 1996, insieme con un Master in Diritto Commerciale Internazionale svolto al King’s College di Londra. Anche sul suo nome, però, grava il veto dei salafiti, motivato dal fatto che El–Din è espressione del Fronte di Salvezza Nazionale, nato dal blocco delle opposizioni laiche e di sinistra alla presidenza Morsi. Come si vede il sentiero su cui dovrebbe snodarsi la road map voluta dal Al-Sisi appare maledettamente stretto e complicato dagli effetti dei veti incrociati, del tutto prevedibili in una coalizione tanto raccogliticcia da mettere dentro tutto e il contario di tutto. Occorre dunque che la presidenza ad interim faccia uno sforzo creativo supplementare per individuare un nome davvero super partes che possa costringere tutti, lealisti di Morsi compresi, a sedere al tavolo della trattativa per raggiungere un accordo.

Nel frattempo, mentre tutti gli occhi sono puntati sul Cairo, passa in secondo piano la cronaca che giunge da un altro fronte ad alto rischio. Nell’area periferica del Sinai, nella parte settentrionale, sono in azione formazioni jihadiste le quali, profittando del momento di instabilità della leadership egiziana, stanno tentando di prendere qualche posizione di vantaggio mettendo a segno azioni criminali in aree non distanti dalla frontiera di Israele. Ci domandiamo per quanto tempo lo Stato ebraico potrà tollerare la presenza di una concreta minaccia criminale a ridosso dei suoi confini, senza mettere in atto operazioni belliche a scopo di tutela della propria sicurezza. Cosa acccadrebbe allora se Israele, dopo decenni di pace, tornasse a bombardare il suolo egiziano? Per ora l’unico a gioire dell’iniziativa dei militari in Egitto, è Bashar Hafiz Al–Asad, il macellaio di Damasco. Ne è rallegrato per almeno due ragioni.

La prima è puramente tattica. L’apertura di un fronte di crisi così importante e centrale come è quello egiziano è destinata inevitabilmente ad allentare la pressione sull’evoluzione della guerra civile in atto nei confini siriani. Anche l’attenzione della opinione pubblica, mediata dalla stampa internazionale, oggi viene calamitata dalla conta dei cadaveri che si vanno accumulando per le strade del Cairo, o di Alessandria o di Porto Said, per cui si è meno vigili nel monitorare ciò che accade alle porte di Damasco o tra le mura di Aleppo. La seconda ragione è invece più profonda, quindi anche più pericolosa. L’intervento dei militari contro i gruppi islamici, detentori di un potere formalmente legittimo, ha prefigurato un ipotetico scenario che potrebbe estendersi a tutta l’area mediorientale. Si tratta della traumatica rottura degli equilibri di potere in essere, fino allo scoppio della “primavera araba” tra le forze laiche rappresentate e garantite dalle istituzioni militari e i movimenti politico-religiosi islamici di matrice sunnita.

In effetti Al–Asad, per primo ma non da solo, trarrebbe enormi benefici dal concretarsi di un elementare sillogismo: se in Egitto l’esercito è nel giusto nel fermare l’integralismo islamico, i ribelli al mio legittimo governo sono integralisti islamici, quindi è giustificato che l’esercito intervenga con ogni mezzo a fermare gli integralisti islamici. D’altro canto, poco è mancato che nell’altro pilastro dell’equilibrio mediorientale, la Turchia, si finisse a vivere una situazione del tutto analoga, con un Recep Taypp Erdoğan messo in discussione da una piazza pronta alla ribellione. Alla luce di questo poco rassicurante panorama anche noi, cittadini della sponda europea, abbiamo cominciato a pagare il prezzo dell’incendio egiziano. Questa mattina (ieri, ndr) l’indice Nymex, sulla piazza di New York, fissa il costo del petrolio sopra quota 103 dollari al barile, con un trend al rialzo dello 0,40%. Non bastavano i guai che già abbiamo di nostro.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:40