Un altro Sessantotto in Brasile e Turchia

In più di cento ore di trasmissioni sportive tv italiane della Confederations Cup dal Brasile, non si è riuscito a spiegare perché ci fosse un milione di persone a protestare per le strade di San Paolo, Rio de Janeiro e Brasilia. Nemmeno un accenno ai motivi più eclatanti e banali delle proteste, quali l’aumento del prezzo dei biglietti dei bus; solo la ripetizione automatica e autistica, delle preoccupazioni per l’infiltrazione di violenti nelle folle delle marce attorno al nuovo Maracanà. In tre anni la presidentessa di origine bulgara Dilma Rousseff ha dilapidato l’enorme bagaglio di fiducia elettorale trasmessole dal precedente presidente Lula, che forse dovrà tornare per salvare le sorti del partito dei lavoratori. Il Brasile, malgrado l’estensione e le materie prime è stato per decenni un paese povero, disordinato, di scarsa produttività, finché l’avvento di una nuova classe media e i vantaggi della globalizzazione l’hanno lanciato tra le nuove economie in crescita del Brics.

Come mai allora l’ex delfina e ministro del popolarissimo Lula, è così contestata? Veramente la sua politica è differente da quella del passato di una nazione in crescita, avviata fuori dalla povertà, in cerca di un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza Onu? Le proteste hanno accomunato diversi gruppi, dagli abitanti delle favelas cacciati da faraonici progetti agli operatori e utenti di sanità, istruzione, trasporti fino agli indigeni dell’Amazzonia i cui diritti sono a rischio. In realtà le capacità politiche di Lula erano state in grado di sostenere politiche di destra liberaleggianti sotto il mantello di slogan populistici. La distribuzione di meri beni materiali grazie a un vasto e allargato accesso al credito al consumo ha fatto quel che poteva, andando proporzionalmente a vantaggio dei diversi ceti, ma senza modificare sostanzialmente le differenze enormi di reddito sia territoriali che sociali. Ora toccherebbe impostare un vero sistema di welfare che taglierebbe sostanzialmente i vantaggi competitivi sul mondo del Brasile, risulterebbe insostenibile se offerto al nord del Paese e all’Amazzonia e soprattutto non garantirebbe crescita e stabilità finanziaria. Senza la magia personale di Lula e con vizi personali di lusso, la presidentessa, in un contesto di crisi per i clienti delle economie più sviluppate, non è la persona più indicata per cambiare il modello brasiliano. Borghese agiata, ex terrorista, di stampo radical chic ma antiabortista, alla Rousseff manca l’appeal popolare socialdemocratico.

Ha dedicato tutta la vita agli ultimi della terra, ma è come se li osservasse in laboratorio. Si trova a sostenere una piatiletka brasiliana, fatta di razionalizzazione produttiva, di grandi progetti (Confederations Cup, Mondiali di calcio e Olimpiadi), di grande urbanistica, di trasformazione dell’Amazzonia in un grande polo industriale. I manifestanti, inclusi gli studenti del Passe Livre (Mpl), non vogliono aspettare le ricadute positive di questa politica; contestano i 15 miliardi di dollari destinati ai Mondiali di calcio, i diritti costituzionali calpestati di 238 tribù amazzoniche, l’espansione agroindustriale nelle zone agricole meridionali e centro-occidentali, la fiorente industria brasiliana della canna da zucchero e dei biocarburanti, le estrazioni minerarie, la costruzione di dighe idroelettriche. In un Paese con due partiti, quello di sinistra detto “dei lavoratori” e quello di destra detto socialdemocratico, entrambi figli della rivolta armata contro la dittatura militare, è evidente una permanente spinta popolare antieconomica e anticapitalistica, che chiede welfare, non sulla crescita, ma sulla diretta base redistributiva; che difende il non sviluppo ambientale e preistorico indigeno pretendendo il welfare, l’aspetto positivo dello sviluppo. Il Brasile, ora che ha più mezzi, vive un suo ’68.

Come la Turchia, dove l’esito finale delle proteste avviate a maggio/giugno attorno al parco Gezi a piazza Taksim di Istanbul, sembrano essere 8 morti e l’arresto di 15 persone a Izmir (Smirne), Ankara, Istanbul, Manisa e Batman, accusate di essere membri di un gruppo terroristico e parte di vari partiti comunisti (Tkep-L, Mlkp e Dhkp/C). Il governo del premier Recep Tayyip Erdogan usa la mano forte convinto che le proteste coinvolgano minoranze urbane, che sotto il simbolo del rifiuto dell’abbattimento dei 600 alberi del parco si oppongono alla sua nuova politica musulmana e antioccidentale. Di fronte alle titubanze della Rousseff, Erdogan, già sindaco di Istanbul, non ha dimostrato incertezze, rispedendo a mittente le accuse dello stesso Parlamento Europeo. La via turca è quella dello sviluppo economico, del welfare in gran parte sostenuto anche dalla parallela azione delle comunità religiose e della restrizione delle libertà e dell’influenza occidentali, necessarie per riequilibrare i diritti urnani e burocratici centrali a vantaggio di campagne e provincia del paese. L’esercito che ha perso i precedenti poteri kemalisti, non interverrà contro un Erdogan difensore dell’indipendenza nazionale.

Qui, malgrado lo sciopero dei sindacati, i lavoratori delle periferie potrebbero sostenere il governo contro gli studenti e gli intellettuali. Le proteste egiziane, del popolo laico contro i fratelli musulmani vanno invece in ordine opposto. L’Egitto è dopo la Libia il secondo Paese nel caos del Nordafrica, grazie alla nuova politica obamiana di sostegno ai musulmani moderati. Ora l’imbarazzo Usa è di dover sostenere una riedizione di governo Mubarack, che Washington aveva contribuito a far cadere. Il nuovo premier, il Nobel Mohammed El Baradei ha sostituito manu militari l’eletto Morsi del partito Fratelli musulmani e dovrà governare contro i partiti di governo, musulmani e Nou. D’altronde non c’è mai stato un ’68, nel Nordafrica, né in Tunisia, o Libia, o Egitto, come neanche nella mediorientale Siria, ma solo manovre destabilizzanti occidentali, capaci di produrre, tra qualche vantaggio economico, colpi di stato o avanzate di reazione religiosa. Non c’è mai stato, perché è mancato lo sviluppo economico, sua condizione sine qua non. Per i giornalisti, resta importante parlare bene delle manifestazioni a tutti i costi e distinguere tra manifestanti buoni ed i violenti; una distinzione impossibile, stupida e inesistente. Per gli evangelisti dei diritti umani, invece, ogni situazione è buona.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:39