Egitto, una roadmap vigilata dai militari

Ciò che sta accadendo al Cairo impone estrema cautela di giudizio. I cosiddetti “ribelli” sono stati i protagonisti della raccolta di 22 milioni di firme per una petizione che chiedeva espressamente a Morsi di lasciare il governo del Paese. La motivazione della protesta, che ha già segnato le prime vittime e un considerevole numero di feriti, potrebbe sembrare quella ideologica. Ma non è così. La nebulosità che avvolge l’effettiva provenienza, il retroterra socio-culturale di questo universo protestatario può essere, in parte, diradata dalla lettura dei dati macroeconomici del Paese. In realtà, l’Egitto è al momento uno Stato sull’orlo della bancarotta. I numeri di bilancio sono impressionanti. L’anno fiscale chiuso al 30 giugno fissa un deficit all’11,6% del Pil (fonte: Limes). L’inflazione, secondo stime del Fondo monetario internazionale (Fmi), ha raggiunto quota 10,9%, mentre il tasso medio di povertà è al 25,5%, con picchi nelle campagne del sud dell’Egitto che toccano il 69,9% della popolazione.

Ad aggravare la crisi finanziaria è il precipitare, in valore assoluto, delle riserve valutarie in moneta estera che hanno subito un decremento, negli ultimi due anni, stimato in 11,6 miliardi di dollari. La principale causa di questo default è da attribuire al crollo di settori strategici per l’economia del Paese, quali il turismo, annichilito dall’insorgere della violenza e del fanatismo integralista in una realtà giudicata, fino allo scoppio della “primavera” nel 2011, sufficientemente sicura. Per tamponare la crisi di liquidità, il governo Morsi aveva aperto un negoziato con il Fmi onde ottenere un prestito, quantificato in 4,8 miliardi di dollari. Insufficienti per tappare la voragine creatasi nei conti pubblici, ma funzionale all’ottenimento di una più consistente apertura di credito dagli Usa che interverrebbero con un’ ulteriore erogazione di 14,5 miliardi di dollari. Naturalmente tutto questo non è gratuito. Il Fondo monetario internazionale, come bene sappiamo anche noi italiani, quando decide di intervenire pone condizioni severissime al Paese aiutato. Nello specifico, al governo egiziano il Fondo chiede una politica, già oggi ritenuta dagli osservatori internazionali oggettivamente insostenibile, di riforme fiscali strutturali centrata, per una parte, sull’azzeramento dei sussidi energetici che assorbono una quota significativa delle entrate dello Stato, per l’altra, sull’aumento della imposizione indiretta, che colpisce generi di consumo di prima necessità e tariffe di servizi primari.

La strategia di occupazione progressiva del potere, che era impersonata da Morsi quale espressione dei movimenti islamici in azione nella gestione della cosa pubblica, stava dando risultati disastrosi, avendo ampiamente deluso le aspettative della popolazione attiva già nei moti di protesta che condussero alla fine del regime di Hosni Mubarak. Oggi, la peggiore accusa che viene rivolta a Morsi è di aver gestito il potere allo stesso modo del vecchio dittatore. Con l’aggravante della crisi economica nella quale il paese è stato precipitato. Anche l’amministrazione americana non è esentata dal moto di critiche e di contestazioni che si levano dalla piazza, al punto che il dipartimento di Stato Usa ha comunicato l’intenzione di chiudere la propria ambasciata al Cairo, a scopo cautelativo, in attesa di verificare gli sviluppi della situazione sul “campo”. Ed è vero che alle forze laiche e moderate, presenti tra i manifestanti di Piazza Tahrir, non è piaciuto il sostegno che gli americani, Obama in testa, hanno dato a Morsi anche quando era chiaro a tutti che i Fratelli musulmani al potere avrebbero tentato di dare una svolta in senso islamico integralista non soltanto alla politica ma anche alla vita civile e culturale della società egiziana, restringendo, anziché estendere, l’area dei diritti individuali e della partecipazione democratica dei cittadini alla vita pubblica. Da ciò si ricava che le forze presenti attualmente nel campo dell’opposizione di piazza convergono da diversi, e non omogenei, percorsi di provenienza.

Il che fa prevedere che vi sia stata un’effettiva volontà comune sostanziatasi nella protesta finalizzata alla cacciata di Morsi, ma nulla l’opposizione di piazza dice a proposito delle alternative di governo che le singole componenti, in cui essa si articola, hanno in mente per il futuro del paese. Per questa ragione la “mossa del cavallo”, prodotta da Al Sisi, lungi dall’essere inaspettata, potrebbe ampiamente spiegare perché sia necessario prevedere un itinerario vigilato e chiaramente definito (la roadmap). Il periodo di transizione presumibilmente sarebbe affidato alla responsabilità di tecnici “super partes” (speriamo non un Monti d’Egitto, altrimenti poveri loro!) in grado di attivare misure di politica economica sostenibili per la popolazione, e, allo stesso tempo, compatibili con le richieste delle autorità monetarie e finanziarie internazionali. Il ruolo dei militari sarà fondamentalmente di garanzia sia all’interno del Paese che nei rapporti con la comunità internazionale. D’altro canto, oggi in Egitto il potere istituzionale che raccoglie la fiducia della maggioranza della popolazione è proprio l’esercito. Un sondaggio condotto dal Ibn Khaldun Center for Development Studies del Cairo, ha rilevato che l’82% dei cittadini egiziani di età inferiore a 35 anni, residenti nelle aree del Cairo, delta del Nilo e Alto Egitto, ritiene necessario il ritorno dell’esercito per garantire stabilità al Paese e il rilancio dell’economia. Questo scenario dagli sviluppi del tutto imprevedibili ha però un sicuro sconfitto: Obama e la politica della sua amministrazione concepita in nome della sua ”maledetta primavera” araba.

Dopo aver aiutato il nord Africa a infiammarsi, fomentando un meccanismo di autocombustione, in nome di un principio democratico che non compare nella mappa genetica di quei popoli così tanto condizionati dal sogno, mai sopito, della grande nazione araba e della affermazione planetaria dell’ Islam, oggi si è al punto di dover augurare il successo ai militari per evitare il peggio di una guerra civile in un paese che conta, al 2011, 82,5 milioni di abitanti (fonte: Banca Mondiale), che ha il controllo della più importante via di comunicazione marittima tra Oriente e Occidente, il canale di Suez, confina con lo Stato d’Israele, ha le chiavi dei cancelli d’ingresso ai valichi di Rafah e di Kerem Shalom, di transito per la striscia di Gaza e, dall’altra parte delle sue rive, ha l’Europa, cioè ci siamo noi. Non è elegante irridere alla disfatta politica di un personaggio di prima grandezza, ma dal momento che le sue fesserie le paghiamo soprattutto noi, mi concedo tale libertà. In Egitto, sul quale pure aveva puntato la sua strategia per rimescolare gli equilibri nel quadrante del Mediterraneo, mister Obama ha pescato la casella 58 al gioco dell’oca: “lo scheletro”, paga la posta e torna alla casella di partenza.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:05