Rivoluzione in Egitto, inizia il secondo atto

Possiamo chiamarlo golpe? Al Cairo c’erano milioni di persone in piazza. Se la rivoluzione è fatta dalle maggioranze e il golpe da una minoranza armata, quella egiziana, adesso, è una rivoluzione. Almeno quanto la è stata la rivoluzione contro Mubarak del 2011: stessi grandi numeri nelle piazze, stesso ruolo dell’esercito. Le forze armate non hanno avuto bisogno di muovere un dito. Hanno solo dichiarato la fine della presidenza di Mohammed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani. L’esercito aveva giocato esattamente lo stesso ruolo, due anni fa, con Hosni Mubarak. Al momento buono, senza sparare un colpo, gli aveva detto “vattene”. E lui se ne era andato. Nel 2011, così come in questi giorni, i generali sono rimasti dietro le quinte, nell’ombra. È ancora difficile stabilire quanto abbiano diretto gli eventi, piuttosto che seguirli.

In un caso e nell’altro, i generali hanno constatato il cambiamento dei rapporti di forza dopo la mobilitazione delle masse. Data l’impossibilità del presidente di conservare il potere senza l’uso della forza, hanno agito di conseguenza. Se la rivoluzione comporta un cambiamento e il golpe una conservazione (o una reazione), quella di ieri è stata decisamente una rivoluzione. Più precisamente: è il secondo round della rivoluzione del 2011. La road map dettata dal comando supremo militare (lo “Scaf”) e annunciata dal generale Abdul Fattah Al Sisi (un ufficiale islamico, voluto da Morsi…) è stata approvata dal leader dell’opposizione democratica Mohammed El Baradei, così come dal patriarca copto Tawadros II. Le componenti laiche e la minoranza cristiana, escluse dal processo costituente per volontà di Morsi, si sono prese una rivincita. Questo secondo round della rivoluzione egiziana le fa rientrare in pista.

L’esercito scioglie un parlamento che era già stato dichiarato illegale (per lo meno, per una buona parte di seggi) dalla Corte Suprema, sospende una Costituzione che era stata scritta e votata dai soli partiti islamici, considerando che tutti gli altri avevano fatto l’Aventino. E richiama il popolo al voto. Al Sisi, nel suo primo discorso televisivo, è stato molto chiaro: il presidente non rappresentava più la volontà popolare. Era ora di ridare la voce agli egiziani. Esattamente come nel 2011, il movimento che si è reso protagonista della rivoluzione (Tamarod, in questo caso) difficilmente diventerà un governo. Le richieste scritte sul manifesto sono un insieme di affermazioni incoerenti, che esprimono esasperazione più che un programma politico vero e proprio. Tamarod (“ribelle” in lingua araba), non ha un’ideologia, ma solo una forte carica populista: lamenta l’aumento della povertà e condanna la richiesta di prestiti al Fondo Monetario Internazionale, chiede giustizia per le vittime della repressione di Mubarak, più ordine pubblico e meno dipendenza dagli Usa (unici fornitori di armi e sicurezza). Tamarod ha fatto da ariete. Ora bisogna vedere chi passerà attraverso la porta che ha sfondato. El Baradei? Amr Moussa (ex presidente della Lega Araba)? Ci saranno anche i copti nel nuovo governo? Non chiamiamolo golpe, dunque. Questa è solo la diretta prosecuzione della rivoluzione del 2011.

Ora bisogna solo attendere di vedere se, come diceva Lenin, “per fare la frittata bisogna rompere le uova”: quanta violenza ci sarà d’ora in avanti? I Fratelli Musulmani denunciano già aggressioni armate. Trecento loro militanti sono ricercati o già agli arresti. La loro televisione è stata subito soppressa. Si contano almeno 10 morti ad Alessandria, Marsa Matruh e Minya. La ribellione, iniziata domenica, è nata come un’ondata di esasperazione contro il collasso della sicurezza, la crisi economica e la povertà endemica. Se le violenze andranno avanti a lungo, se dovessero sfociare in una guerra civile, come in Libia e in Siria, ci ritroveremmo con un Egitto con ancora meno sicurezza e più fame. E forse un terzo round della rivoluzione. Quando si dice: un serpente che si morde la coda.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:12