La rivolta di Tamarod nell'Egitto al collasso

Una folla di egiziani inferociti ha assaltato la sede del partito governativo al Cairo. Le autorità affermano che i morti, in questi primi tre giorni di proteste, sono già 16 e quasi 1000 i feriti. La rivolta dilaga, dal Cairo ad Alessandria, Fayoum, Beni Suef, Kafrar al Sheikh, tutte città in cui si registrano morti e feriti. Quattro ministri hanno rassegnato le dimissioni: sono i titolari del Turismo, dell’Ambiente, delle Comunicazioni e degli Affari Legali. Hanno rinunciato al loro incarico chiedendo al presidente di dimettersi. Migliaia di persone sono permanentemente accampate in Piazza Tahrir e di fronte al palazzo presidenziale. Hanno lanciato una sorta di ultimatum: se ne andranno da lì solo quando riceveranno la notizia delle dimissioni del capo dello Stato. Un anziano intervistato dalla Bbc dichiara ai microfoni della Tv britannica che «non durerà molto», aspettandosi che il presidente si faccia da parte nei prossimi giorni, o anche nelle prossime ore. No, non abbiamo riportato indietro il calendario al gennaio del 2011.

Questa non è la cronaca postuma della ribellione egiziana contro il presidente Mubarak. Questa è la cronaca degli ultimi due giorni, ieri e l’altro ieri, nell’Egitto governato dai Fratelli Musulmani. La sede partitica assaltata e saccheggiata al Cairo è la loro. Il presidente che dovrebbe rassegnare le dimissioni nei prossimi giorni (come chiedono gli oppositori) è Mohammed Morsi. Come Mubarak due anni fa, insiste nel dichiarare «non me ne vado», anche se 22 milioni di suoi cittadini hanno già firmato una petizione contro di lui. Dopo la rivoluzione del 2011, le ribellioni in Egitto non si contano più. La stampa internazionale ha anche smesso di seguirle. Eravamo al corrente della lotta sull’approvazione della nuova Costituzione islamica (lo scorso autunno), sulla rivolta degli ultras di Port Said (la scorsa primavera) per la condanna a morte dei loro compagni. Ma le violenze, così come le proteste politiche sono ormai impossibili da contare. E la vera e propria ribellione scoppiata questa domenica è la più estesa, numericamente e geograficamente, degli ultimi due anni.

Cosa vogliono i nuovi insorti? Non sono i cristiani che si stanno ribellando a un governo islamico che promette un futuro di persecuzioni ancora peggiori rispetto a quelle subite dal vecchio regime. I rivoltosi sono milioni di musulmani. Non sono i laici e i democratici che protestarono contro la nuova Costituzione islamica. Probabilmente ci sono anche loro, ma non sembrano essere la forza trainante. Non sono neppure i nostalgici del vecchio regime: ci saranno in piazza sicuramente anche loro, ma la piazza non chiede di riportare al potere la famiglia Mubarak. Il documento pubblico del movimento “Ribelle” (“Tamarod”, in arabo) esprime un’altra serie di concetti. Si legge, nel manifesto, che in Egitto non c’è più sicurezza, che i poveri “non hanno posto in questa società”, che il governo “chiede l’elemosina” al Fondo Monetario Internazionale, che “non è stata fatta giustizia” per le vittime della repressione di Mubarak nel 2011, che “non c’è più dignità nazionale” per l’Egitto, che l’economia è “collassata” e che l’Egitto stia “seguendo le orme degli Usa”. Considerando l’insieme di queste richieste parecchio contraddittorie o illusorie (come fare ad alleviare la povertà senza prestiti dal Fmi?), Tamarod può essere definito, a grandi linee, come un movimento populista. Difficilmente, se dovesse riuscire a prendere il potere, risolverebbe in fretta i problemi che stanno portando l’Egitto al collasso.

La sicurezza, come lamenta il manifesto dei “ribelli”, è realmente sparita. Un’intera grande regione, il Sinai, è totalmente fuori controllo, divenendo una terra di nessuno in cui proliferano Al Qaeda, trafficanti di uomini e contrabbandieri. In certi villaggi, come mostra un video-shock pubblicano dall’agenzia Bloomberg a marzo, la popolazione si fa giustizia da sé, linciando a morte chi viene accusato di furto. Le armi si stanno diffondendo fra i civili in modo dilagante: la polizia, considerata sempre più inaffidabile (quando non pericolosa), può fare sempre meno. Secondo lo stesso ministero dell’Interno egiziano, il tasso di omicidi è cresciuto del 130% nell’ultimo anno. Non esistono statistiche sull’aumento esponenziale di stupri, violenze e furti. Al collasso della sicurezza segue a ruota quello dell’economia. Chi vuole più investire in Egitto? Chi ci vuole andare ancora in vacanza? Due mesi fa (ben prima di questa nuova ondata di caos) l’ex ministro delle Finanze Samir Radwan, il primo dell’era post-Mubarak, dichiarava al Guardian che l’Egitto stesse attraversando la peggiore crisi dal 1929. Dava solo alcune cifre: contrazione del Pil del 3%, una “rapida svalutazione” della sterlina egiziana, un crollo del 60% delle riserve valutarie straniere. È ancora tutto da valutare l’impatto del caos sul turismo. Già nello scorso gennaio, i vertici delle forze armate lanciavano avvertimenti su un rischio di collasso nazionale. Ora il momento sembra essersi avvicinato. I generali, alla mala parata, riprenderanno il controllo?

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:20