Caos Libia: perfino Obama se ne accorge

L’avevamo detto qualche giorno fa che di Libia si dovesse cominciare a parlare togliendo, per l’occasione, la testa dalla sabbia, ma la realtà non finisce mai di stupire. È sempre un passo avanti. E lo è anche questa volta giacché ciò che sembrava essere un’ipotetica, sebbene fondata, minaccia alla stabilità del quadrante africano del Mediterraneo, oggi, a leggere nelle felpate espressioni della diplomazia americana, la preoccupazione lascia il posto alla certezza. Per quanto non sia opportuna la polemica, è però opportuno rinnovare “gli attestati di stima” per l’operazione compiuta nel 2011 dal governo di Washington e da quello di Parigi, con l’imprimatur delle Nazioni Unite, l’appoggio britannico, la benedizione tedesca, e con il governo italiano trascinato dentro per la collottola: ancora una volta bravi, complimenti, un bel capolavoro.

Ora il signor Obama si accorge che la situazione è letteralmente sfuggita di mano. Dopo che per mesi la sua amministrazione è stata impegnata a lanciarsi, da una sponda all’altra del Potomac, stracci intinti nel guano, senza trovare la forza di assumersi in pieno la responsabilità per la perdita di un suo uomo di punta, l’ambasciatore Christopher Stevens, trucidato a Bengasi l’11 settembre 2012. E quel che è peggio, senza sapere con certezza quale e quanto materiale bellico sia sparito dagli arsenali dell’ esercito di Al Gaddhafi anche se non è difficile immaginare dove sia finito visto che, secondo recenti stime, le milizie armate circolanti oggi in Libia sono circa 500. A complicare le cose è anche lo scontro aperto tra le due forze di sicurezza che si contendono la gestione dell’ordine pubblico, con risibili risultati. Si tratta del SSC (Supreme Security Council) che fa capo al Ministero degli Interni e il Libyan Shield, espressione di quello della Difesa. Su tutti incombe minacciosa l’ombra di Ansar Al Sharia, la holding estremista salafita che non disdegna contatti con i gruppi di Al Qaida, sospettata dell’attentato che è costato la vita al diplomatico americano. Una prima, tiepida risposta, l’amministrazione Obama l’avrebbe data inviando 500 marines, come forza di pronto impiego, a Sigonella.

Una mossa più propagandistica ad uso del “fronte interno” che una vera iniziativa strategica destinata a mutare il corso degli eventi. D’altro canto, il contesto libico, tanto per le dimensioni di teatro quanto per l’affollamento dei soggetti in campo, richiede ben altro impegno di contingenti armati da dispiegare sul terreno, per essere seriamente credibili. Per parte sua la Francia si è sostanzialmente sfilata dalla responsabilità di avviare la fase di bonifica del territorio, forse adducendo la non peregrina motivazione dell’ impegno militare nel Mali, resosi necessario per fronteggiare il rischio di una deriva fondamentalista nel cuore dell’Africa sahariana del Sahel. A questo punto per Obama non resta che chiamare in causa “gli italiani”. Evviva. C’è del lavoro sporco da fare, allora ci ricordiamo che esiste un fidato alleato pronto a tutto. Di bocca buona, che non sta lì a piantare grane o a chiedere la luna, in cambio dei suoi servigi. Per di più è un’Italia diversa, questa del 2013, rispetto agli “anni bui” del berlusconismo. È un’ Italia di presentabili. Ed ecco che la grande stampa nazionale intona la fanfara: Dal G8 all’Italia il compito di "sminare" la Libia. Che bell’affare, che macabra metafora.

Dopo la seconda Guerra Mondiale, toccò agli italiani sminare il suolo patrio da tutti gli ordigni che gli eserciti di mezzo mondo avevano lasciato a terra. Ne morirono tanti di italiani, per fare quello sporco lavoro. Faceva parte della punizione impartita agli sconfitti. I più fortunati se la cavarono col sistema nervoso finito in pezzi. Ora le democrazie occidentali, quelle della “primavera araba”, ci chiedono di andare lì e togliere le armi di mano alle milizie, ristabilire l’ordine pubblico e dare corso al libero e democratico svolgersi della vita delle istituzioni. Non oso immaginare quanti nostri ragazzi lasceranno la pelle sulle sabbie di quel deserto. Non sono i primi, è già successo. Nondimeno se chiamati i nostri sapranno farsi valere onorando fino in fondo la divisa che indossano e la bandiera che impugnano. Ma i nostri governanti farebbero bene a negoziare un intervento con una decente copertura internazionale. Le truppe francesi operative in Mali saranno sostenute dalla compresenza di un contingente di pace delle Nazioni Unite di oltre 12mila unità, a cui il mandato del Consiglio di Sicurezza affida compiti di stabilizzazione dell’area. Anche la copertura finanziaria è a carico delle ONU. Sarebbe auspicabile che il governo italiano trattasse per ottenere analoghe condizioni nell’assumere un così pericoloso incarico.

Non sarebbe male, ad esempio, una preventiva risoluzione del Consiglio di Sicurezza in tal senso. Agire con le mostrine delle Nazioni Unite al braccio conferisce alla forza d’intervento una maggiore legittimità ed evita che le parti in campo pensino di individuare nel paese interventore il nemico contro cui unire gli sforzi e fare fronte comune. Non scordiamoci del pasticcio somalo. Anche allora gli USA, con Italia al seguito, confezionarono un bel capolavoro. Domanda: quando il lavoro sarà ultimato, sperando con successo, e conoscendo la professionalità e il cuore dei militari italiani c’è da scommetterci, cosa farà il governo italiano? Tornerà di nuovo a occupare il posto in seconda fila, lasciando che siano i “grandi” a riprendere in mano il dossier libico, in particolare le parti relative all’estrazioni petrolifere e alla costruzione delle infrastrutture? O alzerà la voce per dire: noi c’eravamo. Prima avete voluto fare saltare il sistema, poi avete avuto paura che vi scoppiasse tra le mani. Noi abbiamo rimesso le cose a posto, quindi tocca a noi condurre il gioco. Lo farà questo governo? Si attendono risposte.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:41